PARROCCHIA
S. MARIA REGINA
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Anno 2009/2010
Numero 1  settembre 2009

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L’Accidia: dove? Altrove, lontano.

Ascolta le parole di questa canzone; sono prese da “Fango” nell’ultimo album di Jovanotti, “Safari”:

“…l'unico pericolo che senti veramente
è quello di non riuscire più a sentire niente
di non riuscire più a sentire niente
il battito di un cuore dentro al petto
la passione che fa crescere un progetto
l'appetito, la sete, l'evoluzione in atto,
l'energia che si scatena in un contatto”

L’accidia è il torpore generale della vita che toglie il sapore all’esistenza rendendola piatta e grigia. Nel linguaggio comune nessuno più la utilizza correntemente: è parola estinta e obsoleta che richiede di essere aggiornata. La sorte di queste termine tuttavia non significa affatto che quanto essa rappresenta sia assente dalla nostra vita, infatti, proprio perché ne percepisce la presenza, la modernità elabora una netta insistenza sulla necessità vitale di percepire il calore delle relazioni, il sapore del cibo, il pulsare delle emozioni, la potenza della passione. È la reazione alla moderna e pericolosa tendenza all’inedia, all’indolenza, all’accidia appunto. Il testo citato all’inizio è solo un piccolo esempio della sterminata produzione artistica a riguardo.

Qui il nostro approccio ha carattere anzitutto spirituale e religioso, pertanto è la fede vinta dalla accidia che ci interessa, quella modalità di vivere il vangelo che ha perso la gioia del credere e ha smarrito l’amore divino percepito nel suo fluire con lo scorrere della preghiera. Molti credenti avvertono che qualcosa non va ma non riescono a dare nome a questo malessere dell’animo; essi spesso sentono che non vale più la pena credere, che la fede e il suo contrario sono molto simili, che è troppo oneroso mettere in pratica la legge dell’amore di Gesù. E si formano nella mente pensieri negativi che istigano a lasciar perdere tutto e ad immaginarsi una vita più bella con un’altra comunità cristiana, con altre persone, in altri luoghi.

L’accidia della fede provoca insofferenza verso la preghiera comune per cui nessuna liturgia sarà mai gradita, nessuna riflessione sufficientemente alta e spirituale e nessun fratello abbastanza attento e sensibile. L’accidia colloca la fede in un “non luogo” facendone immaginare sempre un altro, uno migliore dove si troverebbero tutte le consolazioni dello spirito e le gioie cristiane. Esiti terribili di questa malattia dello spirito sono la noia, l’indifferenza e l’allontanamento dalla propriaota. te una a affatto che nella sostanza sia assente dalla nostra vita, infatti comunità cristiana.

 

Ebbene, l’accidia si può vincere; il suo stesso nome ci indica la via: l'etimologia classica del termine lo fa derivare dal greco “a” (alfa privativo = senza) + “kédion” (= cura). L’accidia sarebbe una vita senza, indolente e pigra. Passo decisivo e fondamentale per la vincere l’accidia è darle il nome che le spetta e reputarla altamente distruttiva della gioia del credere. Vincere l’accidia si può cominciando a prendersi cura del dono immenso della fede, che rimane grazia immeritata da custodire, capire, fare crescere e nutrire. La fede è come un bambino bisognoso di mille cure e attenzioni, è un mistero di luci e ombre che tutto tollera e sopporta ma non di essere data per scontata, acquisita una volta per tutte. Prendersi cura della propria fede domanda di tornare a pensare cosa significhi credere, a scoprire l’amicizia tra ragione e adesione a Dio, a celebrare il mistero di Dio attraverso la danza d’amore della liturgia, ad estendere la potenza dello spirito dalla preghiera all’azione di carità e tornare finalmente ad amare la chiesa, vero luogo di cura per la fede.

Si comincerà così, pian piano, ad essere contenti di sé e della propria dimensione spirituale e ci si accorgerà che nelle proprie vene sarà ritornata a scorrere la gioia del credere che fa percepire “il battito di un cuore dentro al petto, la passione che fa crescere un progetto, l'appetito, la sete, l'evoluzione in atto, l'energia che si scatena in un contatto”.

Don Attilio

 

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