X DOMENICA TEMPO ORDINARIO A
8 giugno 2008

Matteo 9,9-13
Riferimenti : Osea 6, 3-6 :Salmo 49 : Romani 4,18-25 :

Osea 6, 3-6

Osea parla ad un popolo provato dalla guerra fratricida scoppiata nella seconda metà del secolo VIII. Le tribù del Nord (identificabili come Efraim) vogliono liberarsi dalla dominazione assira e attaccano il piccolo regno del Sud (identificato con Giuda al cui centro sorge Gerusalemme). Il re Acaz, nella città santa, è impaurito della possibile conquista e distruzione della sua città da parte delle tribù del Nord (costituite, comunque, da fratelli e sorelle del popolo santo). Vuole restare fedele al re Assiro e lo chiama, anche se il profeta lo dissuade. L’esercito Assiro, arrivando, devasta il nord provocando la tragedia di una guerra che porta brutalità, vandalismi, morte. Nella tragedia finalmente i regni del Nord e del Sud si riconoscono infedeli e si rivolgono al Signore che è sicuro come l’aurora e come le piogge di primavera o di autunno (sono immagini che indicano novità ed abbondanza, tempo della luce e della pace). Il profeta, a nome di Dio, risponde: Il vostro amore è leggero come una nebbiolina, come la rugiada (è inconsistente e non produce frutto). Credete anzi di trovare la strada con pratiche religiose, sacrificando animali nel tempio. Dio ricorda che la sua parola si è fatta sonora nella bocca dei profeti, prima della guerra, ed ora si fa ugualmente sonora sulle scelte di vita. Non interessano le pratiche religiose e i sacrifici di animali, ma soprattutto amore e conoscenza di Dio. E’ questo un tema caro a molti profeti ed a Gesù. Nel Vangelo di Matteo che leggiamo oggi, viene richiamato proprio questo versetto di Osea (6,6): “Misericordia voglio e non sacrificio”. Probabilmente non ce ne rendiamo conto ma è un richiamo rivoluzionario che ancora oggi, dopo 200 anni di fede cristiana, ci mette in crisi, poiché anche nella nostra fede ci sono gli stessi problemi non risolti.

Romani 4,18-25

Nella lettera ai Romani San Paolo, parlando della fede, presenta Abramo come un testimone fedele, coraggioso e fidato. Abramo, contro ogni speranza, ha continuato a sperare di poter avere un figlio da Sara, la moglie amata, poiché il Signore stesso glielo aveva promesso. Eppure aveva sotto gli occhi la crisi possibile di questa speranza, invecchiando lui e Sara, senza ombra o presagio di compimento. Abramo continua a fidarsi e si rinsalda. Convinto di Dio e della sua Parola, attende e questo lo fa crescere agli occhi di Dio come uomo giusto. Noi stessi che crediamo in Gesù diventiamo, come Abramo, coloro a cui “fu accreditato come giustizia”. La fedeltà di Abramo gli procurerà, alla fine, Isacco, il figlio della promessa, ma anche una discendenza che da questo figlio nascerà. La nostra fede in Gesù non ha solo, come contenuto, la nascita di un figlio, ma la consapevolezza che Gesù è risuscitato, Lui “il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione”.

 

Matteo 9,9-13

9 Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10 Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. 11 Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12 Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13 Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori»

 

 

Gesù sta costituendo il nuovo popolo della promessa (e sta quindi raccogliendo i 12 apostoli), scegliendo lavoratori normali, neppure molto istruiti, ma generosi e affezionati a Lui. Sorge, tuttavia, un enorme sconcerto quando, al gruppo, Gesù chiama Levi Matteo che ha una occupazione che ai fedeli ebrei sembra sacrilega: raccoglie la tasse che si debbono consegnare a Roma, impero dominatore pagano, e quindi è diventato ricco sfruttando  la gente e rubando sulle persone devote. E, insieme, non pare che abbia chiesto e ottenuto il perdono delle ruberie contro il popolo di Dio, poiché non ha restituito ciò che è stato rubato più 1/5 della somma (circa il 20%) come risarcimento. Ma chi può più restituire una somma accumulata in molti anni? E come può rintracciare persone a cui ha sottratto danaro in furti commessi per lungo tempo? Gesù è a casa sua e probabilmente Matteo, che lo ha seguito, diventa polo di attrazione per amici e conoscenti dello stesso  livello morale: questi hanno invaso la casa di Gesù e quindi indispettiscono i “giusti” poiché sentono tutte queste persone come intruse e indesiderate. Ma comportarsi in questo modo, in tanti, per condividere un pasto, significa avere una sfacciata confidenza verso un santo di Dio e pretendono di dimostrare amicizia vivendola con sicurezza e allegria. Il disagio crescente si manifesta nell’anello debole che è costituito dal gruppo dei discepoli spaesati, che, con molta probabilità, hanno pur essi delle perplessità. A questi si rivolgono i farisei, dotti esperti e rigorosi osservanti della legge. Gesù va in aiuto con tre risposte: Θ Un proverbio, probabilmente: “Non sono i sani ad aver bisogno del medico ma i malati”. Θ Un testo biblico (testo di Osea): “Andate dunque ed imparate che cosa voglia dire: Misericordia voglio e non sacrificio” che abbiamo trovato nella prima lettura. Θ Il senso della missione di Gesù inviato tra noi che viene come speranza a “chiamare i peccatori”. La risposta di Gesù sconvolge il rapporto tra Dio e l’umanità, rassegnata alla solitudine, alla indegnità, alla maledizione. Il Signore apre a verifiche drammatiche: “Ti chiama se sei malato, se sei peccatore, se sei senza privilegi, se sei escluso”. Chiamare non è ancora salvare ma apertura ad un dialogo dove c’è disponibilità totale da una parte, competenza (medico), amorevolezza, amicizia. Ma la salvezza e il dialogo vero non sono automatici: si rieleggono i partner di una Alleanza, ci si gioca sulla fedeltà e la libertà, si ritorna ad un orizzonte splendido di promesse e di gioia. Nessuno è escluso. “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”. E chi non fa come Gesù?

Un uomo, solo, seduto al banco delle imposte. Uno sguardo che incrocia il suo, una parola sola: Seguirmi. E Matteo è naufragato in quegli occhi; il contabile abbandona, per uno sguardo, per una parola, la logica rassicurante del dare e dell'avere, se ne va dietro a quell'uomo, senza calcolare più nulla, senza neppure domandarsi dove sia diretto. Il centro della scena è tutto di Cristo: Segui Me. Queste parole senza perché, questa mancanza di ragioni, sono la vera ragione del discepolo. È la persona di Cristo la causa, il senso, l'orizzonte ultimo. È Lui il nome della forza che fa partire. Matteo si è «convertito» a Cristo, perché ha visto Cristo «convertirsi» a lui, fermarsi e girarsi dalla sua parte. La vocazione non inizia con sacrifici o rinunce, essa porta innanzitutto un incremento d'umano. Infatti la casa di Matteo, la sua vita prima solitaria, si veste di festa, si riempie di volti, di amici, molti si premura di dirmi, e peccatori, chiamati ben prima di essere convertiti. Convertiti perché chiamati. Non voglio sacrifici! La religione non è sacrificio: guarisce la vita, fornisce consistenza e profondità; non la mortificazione dà lode a Dio, ma la vita piena, forte, vibrante, appassionata. Gesù mangia con Matteo, mangia con me, e mi assicura che il principio della salvezza non sta nei miei digiuni per lui, bensì nel suo mangiare con me. Ci guarisce fermandosi con noi: la sua vicinanza è la medicina, un flusso di vita che mi consegna, insieme a strade, festa, sogni, comunione. Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Qual è il merito dei peccatori? Nessuno. Sono coloro che non ce la fanno, che non sono all'altezza, ma scoprono un Dio che si è fermato a guardarli. Dio non si merita, si accoglie. Gesù cerca il peccatore che è in me. Non per assolvere un lungo elenco di peccati, è poca cosa, ma per impadronirsi della mia debolezza profonda. E lì incarnarsi. Beata debolezza! E io, felice d'essere debole, dimoro nella misericordia, che mi conduce verso un Regno pieno non di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come me. Quando sono debole è allora che sono forte. Nessun lassismo però. Vuoi restare nel peccato perché abbondi la grazia? Assurdo (Rom 6,1). Ma oggi mi godo la festa del peccatore che ha scoperto un Dio più grande del suo cuore. Solo questo mi converte ancora.