Discepoli nei fatti, non a parole
XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO (ANNO A)
28 SETTEMBRE 2008

Matteo   21, 28-32
Riferimenti : Ezechiele 18, 25-28 :Salmo 23 : Filippesi 2,1-11

1]Salmo. Di Davide.
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca. Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
Ezechiele 18, 25-28
Ezechiele è il profeta che inizia il tempo del giudaismo che si svilupperà dopo l’esilio. Egli stesso fa esperienza di quanto pericolosa fosse l'idea di solidarietà, quando viene troppo legata al concetto di alleanza e di popolo, poiché sottrae spazio alla responsabilità personale. In pratica si pensa: "Qualcuno sbaglia ed altri pagano. I padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati" (Ez 18,2). Il profeta chiarisce, allora, che il problema primo non è il passato, ma il presente. Non interessa più la colpa di Gerusalemme, ormai distrutta per l'insipienza dei padri, ma interessa la fedeltà presente di ciascuno. Ognuno è responsabile di fronte a Dio di ciò che ha fatto: bene o male. L'uomo non è un ingranaggio di una macchina, non è solo una parte di tutto, ma è
una realtà intelligente e libera che accoglie o rifiuta, responsabile di una comunità. Il testo si presenta con "accusa, difesa, controaccusa" (v 25). - L'accusa è a Dio da parte del popolo, - il profeta difende - e accusa a sua volta, a nome di Dio. Viene usata tre volte la formula: "retto il modo di agire", richiamando, in tal modo, non tanto delle azioni, quanto una mentalità e un atteggiamento. Due casi opposti (vv 26-27): giusto-malvagio e malvagio-giusto. Ognuno è responsabile del suo operato e quindi il passato si ribalta e raggiunge una condizione nuova. Nessuno potrà dire: "Non lo sapevo". * Conclusione positiva sulla vita: in tutto il capitolo 18 il verbo "vivere" viene ripetuto 11 volte (v 28).
Filippesi 2,1-11
Nella lettera ai Filippesi, S. Paolo, in carcere ad Efeso, sviluppa con commozione un'accorata raccomandazione per questa sua comunità tanto cara, perché superi ogni sentimento di rivalità e vanagloria. Ci sono orgoglio ed egoismo e questi atteggiamenti portano alla dissoluzione. Sono invece necessarie disponibilità positive che formano unità: carità, comunanza di spirito, comunione di sentimenti. Questi atteggiamenti nuovi, che costituiscono un cammino comune, sono dettati dagli stessi sentimenti di Gesù che bisogna imitare. E qui viene riportato un inno preesistente, forse già usato nella liturgia cristiana di
Filippi, impostato su tre realtà diverse : la preesistenza di Gesù, figlio di Dio, la realtà umana,
la gloria di Gesù. Ci sono 6 affermazioni che aiutano a percorrere questo itinerario: 1. Gesù é preesistito possedendo, come Figlio di Dio, prerogative divine. 2. Vi ha rinunciato non solo per vivere la nostra umanità, ma per prendere la condizione dello schiavo secondo il "servo sofferente" di Isaia. 3. L'obbedienza di Gesù si é spinta fino alla morte in croce, segno di maledizione
(Deut. 21,23). 4. E' stato esaltato "con un nome al di sopra di ogni altro nome”. Al nome corrisponde dignità e potere, per cui Gesù é al di sopra di ogni dignità e valore perché è più grande di ogni altra realtà. 5. Esplode, così, una universale adorazione di Cristo, padrone del mondo, considerato nelle 3 realtà geografiche e fisiche della terra: "nei cieli, sulla terra, e sotto terra". 6. Gli viene dato il nome: "Signore" che é nome divino in assoluto.

Matteo   21, 28-32
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».


Il Vangelo di Matteo ripropone una parabola che ha come destinatari i capi dei
giudei. Si delineano due gruppi di persone nei due figli: il primo rappresenta i responsabili della comunità, i capi a cui Dio ha affidato il suo popolo perché ne fossero i pastori e l'altro è il gruppo dei rifiutati, emarginati riconosciuti come
pubblicani e prostitute. I primi hanno formalmente accettato la religione e non si sono occupati di approfondire la fede, mentre gli altri, ritenuti lontani e disprezzati, hanno cambiato atteggiamento e si sono convertiti al messaggio di Giovanni Battista prima e di Gesù poi. Nel testo uomini e donne sono posti sullo stesso piano, responsabili di male e capaci di bene, chiamati alla novità di Dio. L'accento è posto sul pentimento e sul fare, caro all'evangelista che ricorda anche alla fine delle beatitudini: "Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (7,21). Si presenta qui la misericordia di Dio sovrabbondante che non ha pregiudizi, ma che accoglie e accetta che i peccatori prendano il posto degli eletti che non sono stati fedeli. Con la misericordia si presenta anche l'elemento di responsabilità-libertà: pentirsi è essenziale. I peccatori, richiamati dal messaggio di Giovanni, hanno risposto accettando la sua parola, mentre gli interlocutori sapienti che discutono con Gesù non si sono pentiti per credere. Matteo vuole smascherare quelle persone che, nella comunità cristiana, si accontentano di grandi dichiarazioni, aderendo solo formalmente alla fede. La vigna è la strada, la fabbrica, la scuola, la corsia d'ospedale, l'ufficio, il cantiere, ogni luogo dove si condivide con i fratelli la vita quotidiana. Là il Signore chiama a lavorare.

Capita a volte, di fronte a qualcuno che ci delude, di pensare: Basta, questo non cambia più! O anche davanti alle proprie difficoltà, trovarci a dire: Non ce la farò mai!
Il vangelo di oggi è una provocazione e una speranza. Al di là della facciata, sembra dirci Gesù, c'è sempre un cuore e una risorsa di rinnovamento; e magari proprio là dove meno lo si aspetta! Dio non mette il cappello in testa a uno con un giudizio definitivo: crede alla conversione, anzi la stimola e l'aiuta. Quanti non hanno risposto pienamente a Dio - e tra questi ci siamo certamente anche noi -, possono ancora cambiare e convertirsi. Questo è il senso globale della parabola dei due figli. Ma vediamola nei particolari.
1) DECIDERSI CON LA FEDE
Immediatamente appare che la salvezza non è questione di buoni sentimenti o propositi, ma di concreta decisione vitale, che passa ai fatti. In questo senso Gesù aveva già detto: "Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt 7,21). "Figlioli, non amiamoci a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1Gv 3,18).
"Chi dei due - conclude Gesù riferendosi ai due figli - ha compiuto la volontà del padre? - Dicono: l'ultimo". Ed ecco la verifica polemica di Gesù: Allora non siete voi ad essere salvi, signori farisei, che dite e non fate, ma i pubblicani (come Matteo, quello delle tasse) e le prostitute (del tipo di Maria Maddalena) che sono pronti a dire di sì all'invito del Regno e a convertirsi.
"In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio". Io ho incontrato uomini giusti e praticanti - sembra dire Gesù -, ufficialmente cercatori di Dio, e mi hanno rifiutato; ho incontrato uomini di strada, peccatori e prostitute, e mi hanno accolto!
Più precisamente, il fare qui è inteso come decidersi per Cristo, convertirsi alla nuova giustizia del regno di Dio preannunciata già da Giovanni Battista e rappresentata poi dalla persona di Gesù. "E' venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli".
Il punto è "credergli", andare nella vigna, partecipare alla novità messianica. Questa è l'opera prima da fare: credere in Gesù Cristo! "Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna" (Gv 6,40). Il punto cruciale sta nel pentirsi. "Pur avendo visto queste cose, non vi siete pentiti per credergli": questo ha bloccato i farisei. Mentre il secondo figlio, "PENTITOSI, ci andò" nella vigna! Se uno è convinto di possedere già la verità, di essere già a posto con Dio - come erano questi farisei - non ha certo pensiero di convertirsi alla novità di Cristo.
Spesso il perbenismo borghese che noi viviamo è una corazza che ci difende da ogni stimolo spirituale, ci narcotizza e assonna la coscienza, e a volte ci fa giudici persino di Cristo e del vangelo perché ci sembra troppo provocatorio e scomodante! Il Signore vuole posizioni chiare, non compromessi. E' scritto nell'Apocalisse: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo e caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca" (Ap 3,15-16). Anche a noi capita di costatare che i convertiti che vengono dall'altra sponda ci scavalchino poi in fervore e santità!
2) DECIDERSI CON LA PROPRIA LIBERTA'
La salvezza allora dipende dal nostro deciderci, dalla nostra libertà, dai nostri atti. "Se il giusto si allontana dalla giustizia - dice oggi la prima lettura -, per commettere l'iniquità, e a causa di questa muore, egli muore appunto per l'iniquità che ha commessa". Ma la nostra è una libertà "discorsiva", capace ogni momento di riscattarsi, di cambiare, di pentirsi.  "Se il giusto desiste dall'ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà". Sono i singoli atti di bene che allenano e preparano alla scelta definitiva di bene per Dio; come sono le singole scelte di male che gradualmente trasformano la nostra umanità in qualcosa di sempre più coinvolto nella materia e nel male fino a rendercene schiavi per sempre. L'atto libero d'ognuno "trasnatura" la nostra qualità di uomini, e la determina per l'eternità. Niente è definitivamente determinato nella nostra vita: anche l'ultimo sì a Dio può essere detto in croce come il buon ladrone. Ma è certo che quest'ultimo sì è il risultato di precedenti sì, di cui rimane come il risultato e la somma finale. Si muore come si vive! Per questo è indispensabile moltiplicare i sì verso Dio, e imitare Gesù, il quale "non fu sì o no, ma in lui c'è stato il sì" (2Cor 1,19).
E nella sua missione di condivisione con noi non guardò limiti, ma "spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Sec. lettura). Un sì a Dio che lo ha coinvolto totalmente per tutta la vita fino alla morte. E' appunto detto: "Figlio, va' OGGI a lavorare nella vigna". Il nostro destino eterno si decide oggi, e non a parole, ma a fatti. Pensiamo a quanti sono così presuntuosi ancora nel dire di sé: Io sono credente, ma non praticante! Quasi a voler giudicare e snobbare l'invito preciso di Gesù e della sua Chiesa. La strada della salvezza è un sentiero ben tracciato da seguire - quello che passa dalla mediazione di Cristo -, e quindi l'obbedienza passa anche dalla accettazione degli strumenti e delle intermediazioni da Lui volute. "Va oggi a lavorare nella mia... Chiesa", dovremmo allora tradurre l'invito di Gesù. Obbedire alla Chiesa, amare e lavorare dentro e per la Chiesa locale è certamente la formula sicura della nostra salvezza eterna. Lavorare nella vigna è questione di salvezza. Domenica scorsa dicevamo che tale salvezza, per fortuna, non dipende dal nostro lavoro, perché è un dono gratuito di Dio al di là dei nostri meriti. Oggi è sottolineata però la nostra parte di decisione e di lavoro, almeno come condizione. Dio ha voluto scommettere sulla nostra libertà, affidare il suo sogno nelle nostre fragili mani. Forse ha rischiato troppo,... guardando dal nostro punto di vista! Ma la salvezza ha un prezzo, l'amore. "Che sarebbe una salvezza che non fosse libera? Quando si sa cosa significa essere amato da uomini liberi - dice il Signore -, tanti schiavi prosternati non mi dicono nulla. Essere amato liberamente non ha peso, non ha prezzo"

 «Un uomo aveva due figli», e si potrebbe tradurre così: un uomo aveva due cuori. Siamo tutti così, contradditori e incerti, con due cuori: uno che dice sì e uno che lo contraddice. Abbiamo tutti due anime: quella dell'apparire e del fingere per gli altri, e quella dell'essere veri anche se nessuno vede e sa. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, in cui senza contraddizioni avvenga l'incontro perfetto del dire e del fare. Così noi: cristiani solo a parole o con i fatti? Primo attore della breve parabola è il padre, che va' verso i suoi figli, si fa vicino, li cerca, chiede loro di lavorare in una vigna che non dice «mia», ma sottintende «nostra», che al rifiuto non si scandalizza e non si deprime. C'è poi un figlio vivo e reattivo, impulsivo, che prima di aderire a suo padre prova il bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui, di contraddirlo, che non ha nulla di servile, libero da sudditanze e da paure. L'altro figlio, che dice e non fa, è invece un adolescente immaturo, che si accontenta di apparire, cui importa non la verità e la coerenza ma il giudizio degli altri. Qualcosa poi accade e viene a disarmare il rifiuto del figlio che ha detto No. Tutto in una parola: "si pentì", cioè "cambiò il modo di vedere" il padre e il lavoro. Il padre non è più il padre-padrone cui obbedire o cui ribellarsi, ma colui che progetta il bene della casa, che non ha bisogno di lavoratori ma di figli. La vigna è più che fatica e sudore, diventa il luogo dove, nel vino, è racchiusa una profezia di gioia e di festa per tutta la casa. La differenza decisiva tra i due ragazzi: uno diventa figlio e coinvolto, l'altro rimane un servo esecutore di ordini. Chi dei due ha fatto la volontà del padre? È il passaggio centrale: volontà di Dio non è mettere alla prova l'obbedienza o la coerenza dei figli, è invece una vigna dai grappoli colmi di sole e di miele. Il suo progetto, suo e mio, si realizza nei frutti buoni che ognuno può portare per la vita del mondo. Ciò che Dio sogna non è l'obbedienza o la fatica, ma far maturare la vigna della storia. Se agisci così fai vivere te stesso, dice il profeta Ezechiele nella I lettura, fai viva la tua vita! E il vangelo si diffonderà a partire da tutte le piccole vigne nascoste, dove ciascuno si impegna a rendere meno arida la terra, meno soli gli uomini, meno contraddittorio il cuore.