VII Domenica dopo l’Epifania
20 febbraio 2011
Matteo 9, 27-35
Riferimenti: Isaia 64, 3-8 - Salmo 102 - Filippesi 2, 1-5
Signore, ascolta la mia preghiera, a te giunga il mio grido. Non nascondermi il tuo volto; nel giorno della mia angoscia piega verso di me l'orecchio. Quando ti invoco: presto, rispondimi. Si dissolvono in fumo i miei giorni e come brace ardono le mie ossa. Il mio cuore abbattuto come erba inaridisce, dimentico di mangiare il mio pane. Per il lungo mio gemere aderisce la mia pelle alle mie ossa. Sono simile al pellicano del deserto, sono come un gufo tra le rovine. Veglio e gemo come uccello solitario sopra un tetto. Tutto il giorno mi insultano i miei nemici, furenti imprecano contro il mio nome. Di cenere mi nutro come di pane, alla mia bevanda mescolo il pianto, davantialla tua collera e al tuo sdegno, perché mi sollevi e mi scagli lontano. I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco. Ma tu, Signore, rimani in eterno, il tuo ricordo per ogni generazione. Tu sorgerai, avrai pietà di Sion, perché è tempo di usarle misericordia: l'ora è giunta. |
Isaia 64, 3-8
Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto
per chi confida in lui. Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci hai messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell'iniquità. Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo.
Questo testo risente, insieme, dell'angoscia e della speranza per un tempo nuovo che si affaccia. Lo scritto rispecchia il periodo in cui è avvenuto il ritorno in Israele di una parte consistente del gruppo ebraico di nostalgici che finalmente ha osato abbandonare la residenza in Babilonia per rimettersi in viaggio verso la terra d'Israele. Babilonia è stata sconfitta da Ciro il Grande: e questo re ha aperto le porte agli stranieri vinti che abitavano la città perché potessero tornare alle loro terre. Il clima che si è creato nella nuova patria d’Israele non corrisponde però ai sogni che erano stati custoditi nei tempi della nostalgia. Allora apparivano splendidi e trionfali, ma il ritorno è risultato un ritorno di poveri, in un contesto che non li accoglie, certo, volentieri. Sono considerati intrusi e, tutto sommato, prepotenti. Eppure le lunghe riunioni di preghiera e di ricordo nostalgico a Babilonia aveva passo passo ricostruito la memoria della propria storia, aveva svelato le ambiguità delle proprie debolezze e dei propri tradimenti. Era nata la coscienza che ciò che era avvenuto dipendeva dal castigo di Dio che voleva recuperare la consapevolezza del suo popolo che si era traviato. Nell'esilio si era tornati a sperare. Si sono intraviste le opere del Dio fedele che non ha fatto mancare i suoi premi e le sue attenzioni per "quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie" (v4). Il ricordo del passato recente riporta alla vergogna di essere un popolo vinto perché abbandonato da Dio e quindi "come panno immondo, come foglie avvizzite, come presenze inconsistenti”. "Ci siamo dimenticati di te, nessuno invocava il tuo nome" e tu "avevi nascosto da noi il tuo volto". Ma la storia non è passata invano. “L'esperienza, il ricordo, la fatica ti hanno fatto riscoprire ancora e Tu sei nostro Padre". Ed ora, nella nostra umiliazione ci rendiamo conto che il tuo popolo continua ad avere consistenza perché è "opera delle tue mani". Abbiamo scoperto finalmente e te lo diciamo. "Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo". E’ un bellissimo esempio di come la memoria e la stessa fatica all’adattamento si possa trasformare in consapevolezza, coscienza di popolo, preghiera e speranza. Anche noi stiamo celebrando il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
|
Filippesi 2, 1-5
Se c'è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c'è conforto derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Nella lettera ai Filippesi, Paolo, in carcere ad Efeso, scrive con commozione un'accorata raccomandazione per questa sua comunità tanto cara, perché superi ogni sentimento di rivalità e vanagloria e la concordia riesca a sostenerla e a farle superare le tentazioni del male. Sono filtrati, probabilmente, orgoglio ed egoismo e questi atteggiamenti portano alla dissoluzione. Necessarie, invece, delle disponibilità positive perché si possa parlare di una unità. E l’unità si costituisce se Gesù è il fondamento dell’agire di ciascuno, se le soddisfazioni sorgono da spirito di amore, se c’è desiderio di essere in comunione con sentimenti di carità e di compassione. E’ questo, assicura l’apostolo, ciò che i credenti debbono sviluppare. “Con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi, voi rendete piena la mia gioia" (2,1-2). Vengono quindi richiamati alcuni atteggiamenti fondamentali che si verificano nella quotidiana esperienza di vita comune perché possa maturare un’unità nella comunità: "Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (2,3-4). Questi atteggiamenti nuovi, che costituiscono un cammino comune, sono dettati dagli stessi sentimenti di Gesù che bisogna imitare. Si pone, in tal modo, un modello che, nonostante le apparenze, non è tanto una formulazione teologica astratta ma un richiamo concreto, fondamentale, a Gesù perché: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù". Probabilmente ci sono alcune smagliature nell'intesa tra i cristiani nella comunità. La mancanza di amore si manifesta come spirito di parte e come affermazione di sé, a danno degli altri. Ne viene una lacerazione dell'unità (vv 3-5). Paolo fa appello all'umiltà che, nel mondo greco, era disprezzata perché sinonimo di servilismo, abiezione, incapacità, adulazione (il nostro: "strisciare ai piedi di qualcuno"). Nel cristiano l'umiltà non ricorda il "cane bastonato", ma un cuore aperto alla comprensione e alla generosità verso l'altro. E Gesù rappresenta l’esempio più grande di umiltà che accetta di giocarsi nello scontro con il male, alimentando un’alleanza con chi sbaglia affinché possa venire scoperta la possibilità di un amore totale. Il mondo può essere vinto solo da un amore totale. Gesù accetta questo rischio concreto e il Padre è il solo che sa riconoscere questa offerta totale e sa farla riconoscere ad altri. La Comunità cristiana è portatrice nel mondo di questo segreto che si svela nella propria fede.
|
 |
Matteo 9, 27-35 a
Mentre Gesù si allontanava di là, due ciechi lo seguivano urlando: "Figlio di Davide, abbi pietà di noi". Entrato in casa, i ciechi gli si accostarono, e Gesù disse loro: "Credete voi che io possa fare questo?". Gli risposero: "Sì, o Signore!". Allora toccò loro gli occhi e disse: "Sia fatto a voi secondo la vostra fede". E si aprirono loro gli occhi. Quindi Gesù li ammonì dicendo: "Badate che nessuno lo sappia!". Ma essi, appena usciti, ne sparsero la fama in tutta quella regione. Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva: "Non si è mai vista una cosa simile in Israele!". Ma i farisei dicevano: "Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni".
Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità.
 |
SINAGOGA DI NAZARETH |
Dopo il “discorso della montagna”: (le parole”:capp5-7), Matteo fa seguire il racconto delle “opere liberanti” di Gesù. E se nelle beatitudini Gesù è il maestro, qui Gesù è il guaritore, anzi colui che manifesta, attraverso le opere straordinarie di Dio, la liberazione definitiva, la salvezza, la presenza nuova dell'Alleanza eterna. Così Matteo, nei capitoli successivi (capp 8-9) propone 10 miracoli nello stesso numero delle 10 piaghe d'Egitto attraverso cui il popolo d'Israele passò indenne e in forza delle quali venne liberato. E se nell'insegnamento delle beatitudini Gesù era accostato a Mosé, qui la figura di Gesù acquista un rilievo particolare per l’effettiva presenza di gesti che liberano il nuovo popolo che egli raduna. Gli ultimi due miracoli della serie dei 10, oggi letti, sono la guarigione di due ciechi (9,27-31) e la guarigione di un muto indemoniato (9,32-34). I ciechi e il muto, bloccato dal demonio che non comunica, identificano dei malati ma diventano immagine degli stessi interlocutori di Gesù che avrebbero bisogno di essere, essi stessi, liberati se accettassero di credere in lui. Essi, invece, rischiano di essere completamente incapaci di vedere, di capire e di esprimersi non avendo accettato di avere fiducia. Eppure conoscevano la Scrittura e poteva essere facile l’accostamento dei tempi di Gesù alle parole di Isaia (35,5): "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi, e si schiuderanno gli orecchi dei sordi". Questo testo Matteo lo riferirà come contenuto del messaggio inviato da Gesù al Battista quando, attraverso i discepoli, Giovanni presenterà le sue perplessità e i suoi timori. Il centro di questa liberazione è la “casa” (la Comunità cristiana) dove si radunano gli amici di Gesù e l'elemento fondamentale di scambio è la fede. Nella casa sono formulati interrogativi sulla fede: "Credete che io possa fare questo?” (28). E il miracolo avviene perché Gesù si sente rispondere.”Si”. “Allora avvenga per voi secondo la vostra fede". Il silenzio successivo che Gesù impone si gioca sulla più profonda gratuità, unica capace di smantellare l’esibizione di potenza. La popolarità dei miracoli avrebbe facilmente caricato il titolo: “figlio di Davide" di quella ambiguità di messianismo regale che non faceva maturare il nuovo orizzonte dell'amore di Dio per il suo popolo, ma ripeteva all'infinito lo scontro tra potenza e poteri, tra sottomissione ed esclusione. Questa ambiguità, continuamente pretesa, arriverà persino sotto la croce, quando Gesù si sentì sfidato: "Dimostra il tuo messianismo”. “Scendi dalla croce e ti crederemo". La guarigione del muto indemoniato ci riconduce alla sterilità dell’insegnamento dei dottori e dei saggi d'Israele, ma anche all’insignificanza e incapacità di formulare messaggi credenti anche da parte nostra. La scoperta che un muto possa parlare perché Gesù riconsegna a lui la capacità di esprimersi, fa passare i farisei dalla contestazione (9,11 “Come mai il vostro maestro mangia con i pubblicani ed i peccatori”), quindi alla calunnia (v 34 “Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni") e, infine, si giungerà alla decisione di metterlo a morte (12, 14 "Allora i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire"). Il testo di Matteo è drammatico perché neppure i fatti evidenti di libertà, di cambiamento, di guarigione, di restituita nuova dignità sanno mettere in dubbio le proprie convinzioni radicate. Si diventa incapaci di qualsiasi revisione. Gesù diventa allora la discriminante tra il valore di una persona che cresce, fidandosi di lui, e una persona sapiente e religiosamente convinta che rinnega ogni possibilità di intervento della pienezza di Dio tra noi. In fondo ci troviamo all'interno di un itinerario di idolatria dove Dio non può farci più niente e dove la domanda fondamentale che Gesù ci pone non è retorica ma la domanda di altissimo livello di responsabilità e di libertà: "Credete che io possa fare questo?" (v 28). Il versetto 9,35 riprende, quasi alla lettera, l’avvio delle “Parole e Gesti di liberazione” anticipate in 4,23: o "Gesù insegna nelle sinagoghe". Nelle sinagoghe Gesù riprende il messaggio dell'Antico Testamento, rileggendolo con autorità; o "annuncia il Regno”: l'orizzonte si allarga nella prospettiva del dono nuovo che il Padre fa per tutta l'umanità che viene chiamata; ed è l’annuncio che si sviluppa “nella casa”; o "cura malattie e infermità" e svolge l'azione terapeutica che esprime l'impegno della nuova dignità e della nuova pienezza che Dio riconosce ad ogni uomo e ad ogni donna. Dio libera dal male morale e fisico restituendo ciascuno alla salute piena. E’ il richiamo del segno di una nuova umanità che viene riscattata ( come prima del peccato nel paradiso terrestre?). |