
IV Domenica di Pasqua
15 maggio 2011
Giovanni.10, 11-18
Riferimenti : Atti degli
Apostoli. 6, 1-7 - Salmo - Romani.10,
11-15
Canto delle ascensioni. Ecco, benedite il
Signore, voi tutti, servi del Signore; voi che state nella casa
del Signore durante le notti. Alzate le mani verso il tempio e
benedite il Signore. Da Sion ti benedica il Signore, che ha
fatto cielo e terra. |
Atti degli
Apostoli. 6, 1-7 In quei giorni, aumentando il
numero deidiscepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro
quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana,
venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono
il gruppo dei discepoli e
dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di
Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli,
cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di
Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico.
Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al
servizio della Parola». Piacque questa proposta a tutto il
gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito
Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un
prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo
aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si
diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si
moltiplicava grandemente; anche una grande
moltitudine di sacerdoti aderiva alla
fede.
Negli Atti degli Apostoli il cap. 6 segna l’inizio della
rapida espansione del Vangelo in Israele fino ad Antiochia,
mentre nei primi 5 capitoli sono state descritte la formazione e
l’attività della Comunità cristiana a Gerusalemme. L’istituzione
dei “sette” rappresenta un punto fondamentale che favorirà
l’iniziò della missione della Chiesa. C’è un conflitto tra gli
“ellenisti” (giudeo-cristiani provenienti dall’impero e
dimoranti a Gerusalemme: parlano greco e leggono la bibbia in
greco) e gli “ebrei”(giudeo-cristiani, originari della
Palestina, che leggono la bibbia in ebraico). Gli Apostoli,
infatti, sono chiamati ad una verifica per la denuncia di alcuni
disagi, causati da disattenzione verso i bisogni delle
minoranze, costituite, in prevalenza, da giudeo-cristiani
ellenisti. Così gli Apostoli riconoscono la situazione di
difficoltà e decidono di sviluppare, diversificando, ruoli e
compiti. L’elezione dei “sette”, tutti di origine greca (lo si
vede dal nome), identifica la scelta coraggiosa di riconoscere
alla minoranza dei cristiani ellenisti la responsabilizzare
della gestione delle mense, oltre al lavoro pastorale nella
comunità degli ellenisti stessi. In altri termini chi si lamenta
diventa il responsabile nuovo della gestione. Tra i “sette”
almeno due, Stefano e Filippo, svolgono anche un prezioso lavoro
di predicazione aperto ai pagani e una riflessione biblica
nuova: interpretare il Vecchio Testamento alla luce dei fatti e
delle parole di Gesù. Il numero 7 può derivare dai sette popoli
pagani abitanti in Canaan (Atti 13,12), oppure dai consigli e
gruppi amministrativi greci e romani, oppure ancora, più
semplicemente, può derivare dall’azione di coordinamento che
viene fatto in sette giorni, ciascuno in un giorno, poiché sono
tutte persone volontarie e quindi debbono
provvedere anche al proprio lavoro nel resto della settimana.
Fin dall’inizio emergono i tre ministeri essenziali della
Chiesa: il servizio della Parola, il servizio liturgico della
preghiera e il servizio dell’assistenza ai poveri. Qui non viene
usato il termine “diacono” anche se si usa la parola
“diaconia”(servizio) e si parla della “imposizione delle mani”.
Ma l’ufficio corrispondente al diaconato si
definirà più tardi. E’ interessante notare che la Chiesa
articola le sue funzioni, non solo ancorandosi al suo inizio ma
anche cercando di dare risposte varie a secondo dei problemi che
man mano si affacciano nel proprio cammino storico. Essa si
struttura, infatti, anche per le necessità concrete che
emergono, al fine di vivere in comunione. E’ anche una comunità
senza pregiudizi, coraggiosa e fiduciosa, che affronta i disagi,
rileggendoli in positivo come richiamo ad una responsabilità
comune e ad una efficiente collaborazione. |
Romani.10, 11-15
Fratelli, dice la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà
deluso. Poiché non c’è
distinzione fra Giudeo e Greco, dato che ui stesso è il Signore
di tutti, ricco verso tutti quelli che lo
invocano. Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvato. Ora, come invocheranno colui nel
quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non
hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno
che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati
inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro
che recano un lieto annuncio di bene!
In questo capitolo (10,1-21) Paolo parla del fallimento di
Israele che non ha saputo accogliere la presenza di Gesù: vv
1-3: Israele ha ignorato la giustizia di Dio ed ha preteso di
salvarsi secondo le proprie forze; vv 4-13: Gesù è la via nuova
che porta la giustizia e dona la salvezza a coloro che gli
credono; vv 14 21: Israele è
disobbediente, incredulo e responsabile del rifiuto della
giustizia di Dio. E’ pur vero, dice Paolo, che Mosé aveva dato
alcuni suggerimenti per individuare la presenza di Gesù e la sua
Parola. Ma Gesù non è stato accolto. Accogliere Gesù non è
facile anzi, non è possibile ad una persona se non è aiutato
dallo Spirito: "Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello
Spirito Santo" (1Cor 12,3). Accogliere Gesù
richiede un profondo e coraggioso atto di fede per cui con la
bocca e con il cuore crediamo e accettiamo che Gesù è il
Signore, vissuto tra noi, crocifisso e risorto. La bocca e il
cuore sono due vie importanti per esprimere la fede (10,8). Il
cuore è il luogo delle scelte, delle decisioni, delle
appartenenze. In questo caso il cuore proclama la
signoria di Gesù sulla nostra vita e quindi la sua
unicità e il suo valore per poterci unire in pienezza. La bocca
esprime ciò che il cuore accoglie. "Con la bocca si esprime ciò
che si ha nel cuore", dice Gesù (Luca 6,45). Dire: "Gesù è il
Signore" significa manifestare con consapevolezza, all'interno
di una comunità dove si vive e ci si confronta, la scelta
fondamentale di Gesù. Con questa scelta, comunque, compiamo una
professione di fede che porta il dono di Dio. È questo
l'elemento che unifica, al di là delle differenze somatiche o
culturali: "Non c'è distinzione fra giudeo e
greco" (v 12). Il mondo della fede abbatte le barriere di
differenze razziali, di culture diverse, di condizioni sociali
ed economiche, di temperamenti, di caratteri. Gli ultimi due
versetti percorrono l'itinerario per giungere alla fede piena.
Sempre alla ricerca del motivo per cui Israele non ha invocato
Gesù, viene ricostruito il cammino della evangelizzazione. Per
invocare bisogna credere. Per credere bisogna aver sentito
parlare. Per sentire l'annuncio bisogna che qualcuno lo faccia.
L'annuncio viene fatto da chi è stato inviato. Paolo può
permettersi di dire che ci sono state molte occasioni di
annuncio tanto che stupisce e crea meraviglia l'abbondanza di
questa parola: "Per tutta la terra è corsa la loro voce e fino
ai confini del mondo le loro parole" (v 18). Per ciò crea gioia
e sempre sorpresa ciò che dice Isaia (52,7): "Quanto sono belli
i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!”. Ma
allora diventano splendidi i passi di chi ti raggiunge, di chi
ti corre incontro, di chi ti cerca. Sono i passi che richiamano
quelli di Gesù, missionario itinerante nella terra d’Israele.
Sono i passi premurosi di chi sa conoscere la
sofferenza e soccorre e quindi sono i passi dei discepoli che
inondano di annunci gioiosi il mondo.
|
Giovanni.10, 11-18
In
quel tempo. Il Signore Gesù disse ai farisei: « Io sono il buon pastore. Il buon
pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al
quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e
fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli
importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie
pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do
la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo
recinto: anche quelle io devo guidare.
Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per
questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi
riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere
di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il
comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Il Vangelo di Giovanni, nel cap. 10 propone l'immagine del pastore (10,1-5):
ma "non capiscono che cosa significa questa similitudine che Egli diceva loro"
(10,6). Gesù allora dà una spiegazione in due momenti: - identifica sé con la
porta dell'ovile (vv 7-10):”Chi entra attraverso la porta non è ladro né
brigante… ma sarà salvato (8-9)"; - identifica se stesso con il buon pastore (vv
11-18: Vangelo di oggi). Il mondo di Israele è un mondo di agricoltori e
tuttavia mantiene florida, perché produce ricchezza, la pastorizia. Il pastore,
che passa lungo tempo in luoghi isolati con il gregge, vive con questo un
rapporto affettivo: chiama ogni pecora per nome e questa lo riconosce dalla
voce,. E poiché nel mondo biblico si ritrovano animali selvaggi od anche ladri
di bestiame, alcuni pastori sono pronti a battersi armati di fionda e di
bastoni. Spesso i re sono paragonati ai pastori e contro di loro sono
pronunciate durissime lamentele perché non trattano il gregge con giustizia e
amore ma governano con malvagità e ingiustizia. Un esempio di
malvagità è ripreso dal profeta Ezechiele (cap 34); e invece un esempio di
responsabilità e di regalità, attenta al popolo, è sviluppato nella
testimonianza e nella memoria di Davide che viene dal mondo della pastorizia e
governa i suoi come re fedele e saggio. In questo testo, diviso in due parti,
viene ripetuto due volte: "lo sono il buon pastore" (v 11/v 14): · vv 11-13:
Gesù è contrapposto ai mercenari; · vv 14-18: Gesù ha un rapporto profondo ed
unico con le sue pecore che arriva al dono della vita (vv 17-18). Nei villaggi
d'Israele gli abitanti, non potendo ciascuno condurre al pascolo le poche pecore
che possiede, ricorrono ai salariati. Il mercenario per sé non sfrutta le pecore
ma si comporta "come pastore" nel tempo ordinario e facile. Nel momento
difficile, però, non si espone, non rischia, non dà la vita, si occupa di sé,
non ama le pecore. Una legislazione rigorosa fissa in un contratto gli obblighi
dei salariati che sono tenuti ad affrontare il lupo, o due cani, o un animale
piccolo ma può fuggire davanti al leone, all'orso e al ladro. Nel contratto
manca, ovviamente, la clausola di dare la vita per le pecore; così il mercenario
non si occupa della sorte delle pecore. Quando fugge, si preoccupa solo della
propria vita e del proprio stipendio e non gl’interessano le pecore. Così il
lupo può portare scompiglio e liberamente imperversa. Il gregge, a cui Gesù fa
riferimento, è il popolo d’Israele , proprio quel popolo che i farisei
maledicono perché ignorante (Gv9,22.34), e che i capi politici sfruttano poiché
pensano solo al loro potere (Gv.l1,48). Gesù viene dopo il ladro, il brigante,
l'estraneo e il mercenario: figure negative. Le pecore sono depredate e
disperse. Egli, invece, è il buon pastore che ha un rapporto di profonda
comunione ("le conosco") a somiglianza della comunione con il
Padre. Questa comunione si allarga: é un'alleanza che tocca l'intera umanità. Da
notare la somiglianza per la frase di Giovanni: "conosco le, mie pecore e le mie
pecore conoscono me" e la formula dell'Alleanza: "io sono il loro Dio ed essi
sono il mio popolo" (Zac. 13,9; Ger. 31/31). Il verbo “conoscere”, nella Bibbia,
non significa tanto un apprendimento, se si parla di persone, ma un'esperienza
profonda di intimità e comunione di cui si fa carico Gesù. Nell'ultima cena Gesù
ricorda che è disponibile ad offrire totalmente la sua vita come segno di amore
per ciascuno di coloro che si accostano a lui. L' "lo sono" di Gesù richiama la
vita piena di Dio che si offre: una profonda libertà interiore e una profonda
obbedienza al Padre. Egli offre e riprende se stesso: libertà e glorificazione,
morte e resurrezione. Gesù entra nella sfera della comunione di Dio con questa
ubbidienza. che é il bene del gregge che il Padre ama. Amando le sue pecore e
riunendole con il dono totale, Gesù svolge la volontà di Dio e propone alla sua
Chiesa il compito della cura pastorale nel mondo. La riflessione e l'operosità
pastorale sono un compito fondamentale della vita cristiana e devono far sentire
il significato di Gesù pastore: sono l’espressione rassicurante di essere
conosciuti e amati da Gesù. Sono perciò un compito da non abbandonare solo alla
cura del clero (vescovi, sacerdoti e diaconi) poiché compito pastorale (il
Concilio Vaticano II ce lo ribadito in tutti i modi) è impegno di ogni credente
adulto: sacerdote e laico che sia, impegno della “Chiesa-popolo di Dio”,
ciascuno con carismi propri e competenze, ruoli e sensibilità propri. . - Amare
ogni persona, sorreggerla e proteggere la sua libertà significa sviluppare la
pastorale: operare secondo la volontà di Dio e mettersi al suo servizio. |