
II DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
15.01.2017
Giovanni 2, 1-11
Riferimenti : libro dei Numeri 20, 2. 6-13 - Salmo 94 - Romani
8, 22-27 |
Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la
roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli
grazie,a lui acclamiamo con canti di gioia. Entrate: prostràti,
adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui
il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che
egli conduce. |
libro dei Numeri 20, 2. 6-13 In
quei giorni. Mancava l’acqua per la comunità: ci
fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne.
Allora Mosè e Aronne si allontanarono
dall’assemblea per recarsi all’ingresso della
tenda del convegno; si prostrarono con la faccia
a terra e la gloria del Signore apparve loro. Il
Signore parlò a Mosè dicendo: «Prendi il
bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la
comunità e parlate alla roccia sotto i loro
occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai
uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da
bere alla comunità e al loro bestiame». Mosè
dunque prese il bastone che era davanti al
Signore, come il Signore gli aveva ordinato.
Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti
alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o
ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da
questa roccia?». Mosè alzò la mano, percosse la
roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua
in abbondanza; ne bevvero la comunità e il
bestiame. Ma il Signore disse a Mosè e ad
Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo
che manifestassi la mia santità agli occhi degli
Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea
nella terra che io le do». Queste sono le acque
di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il
Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a
loro. Questo racconto di
sofferenza e di paura si svolge nel deserto di
Kades e viene riportato come un episodio che si
sviluppa verso la conclusione dell'esperienza
dei quarant'anni del deserto. Lo stesso racconto
ha delle analogie con un avvenimento (Es 17,1-7)
riportato all'inizio dell'esperienza del
deserto. L'episodio del libro dei Numeri
aggiunge il divieto e la motivazione
dell'impossibilità, per Aronne e Mosè, di
entrare nella terra promessa. Alle due località
viene dato lo stesso nome di Meriba che
significa "contesa". Il popolo discute e, in un
certo senso, denuncia Dio stesso e Mosé perché,
inquieto del proprio futuro, dà a loro la colpa
della propria insicurezza e del futuro della
propria morte. In questo episodio l'autore
biblico probabilmente coinvolge anche Mosé e
Aronne in un atteggiamento e quindi
comportamento di diffidenza verso Dio, espresso
dal fatto di aver percorso due volte la roccia
(La roccia richiama spesso nell'Antico
Testamento lo stesso Signore, riferimento
stabile e garantito per ogni credente). Nel
primo episodio del libro dell'Esodo il racconto
parla espressamente: "Io sarò davanti a te sulla
roccia nel Nord; tu batterai sulla roccia: ne
uscirà acqua e il popolo berrà" (Esodo 17,6).
Nell'episodio del libro dei Numeri, tuttavia,
Dio semplicemente ordina di "parlare alla
roccia": "Prendi il bastone; tu e tuo fratello
Aronne convocate la comunità e parlate alla
roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua
acqua; tu farai uscire per loro l'acqua dalla
roccia e darai da bere alla comunità e al loro
bestiame". È difficile rilevare le differenze
tra il comando di Dio e l'azione di Mosé, salvo
quello di battere due volte la roccia piuttosto
che di parlare alla roccia stessa, ma l'autore
biblico si ferma a queste constatazioni.
Comunque è visibile una preoccupazione di Mosè
che gli fa dividere il Signore dalla sua parola.
Di fatto può nascere da qui il rimprovero del
"Non avere avuto fiducia in me per dar gloria al
mio nome santo". Teologicamente viene ricordato
che coloro di cui Dio si fida e che si mettono
sulla strada della sua volontà e della sua
obbedienza, spesso, non sanno superare il male,
la fragilità e le infedeltà. E tuttavia il
Signore li chiama e, attraverso loro, il Signore
stesso svolge opere di speranza e di salvezza,
senza permettere che i suoi progetti possano
venire annullati. |
Romani 8, 22-27 Fratelli,
sappiamo che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie
del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo
le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella
speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se
è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già
vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non
vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche
lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo
infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso
intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori
sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i
santi secondo i disegni di Dio. San Paolo, nel
capitolo VIII, parla della vita secondo lo Spirito,
confrontandola con la vita secondo la carne. Chi crede in Gesù
riceve il dono dello Spirito e solo lo Spirito permette a
ciascuno di superare le difficoltà del male, di saper vivere
secondo giustizia, di camminare nella Sapienza di Dio. Il
confronto tra la vita della carne e la vita dello Spirito si
allinea sui desideri: ci sono desideri che portano alla morte e
desideri che portano alla vita e alla pace. Così ciascuno,
guidato dallo Spirito di Dio perché ha accolto la Parola di
Gesù, diventa veramente un figlio che può permettersi di
chiamare "Papà" Dio stesso. Ma questa garanzia non ci viene
dalla carne. E' lo Spirito che ci fa eredi di Dio, coeredi di
Cristo se accettiamo come lui di lottare, nonostante le
sofferenze, per camminare e partecipare nella gloria. È sempre
lo Spirito che attesta a ciascuno di noi che siamo figli. Il
richiamo al confronto tra la sofferenza e la gloria permette a
Paolo di ricordare che non sono paragonabili: la sofferenza è
breve, la gloria è grandiosa ed eterna. Il mondo materiale,
creato per l'uomo, partecipa allo stesso destino dell'uomo. Come
il corpo dell'uomo è destinato alla gloria, anche il mondo sarà
oggetto di redenzione e parteciperà alla «libertà» dello stato
glorioso (8, 23). Se la filosofia greca voleva liberare lo
spirito dalla materia considerata come cattiva, il cristianesimo
libera la stessa materia con la medesima speranza dell'umanità
salvata. Ma "se abbiamo lo stesso destino e viviamo nella stessa
speranza per cui attendiamo con perseveranza", noi abbiamo un
compito fondamentale: riempire questa attesa, aprire il cuore e
aiutare il mondo al cambiamento nella preghiera. Ma noi non
sappiamo pregare. Le nostre invocazioni sono solo tentativi per
fare aderire Dio ai nostri progetti. E allora lo Spirito viene
in soccorso alla nostra debolezza e ci suggerisce quello che
dobbiamo dire al Padre, poiché "lo Spirito stesso intercede con
gemiti inesprimibili" (v 26). Pregare allora e accogliere la
volontà di Dio, aprire il cuore alla sua luce, illuminati dallo
Spirito che "scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio"
(1 Cor 2,10) e ci fa partecipe dei suoi misteri. I pensieri del
Signore sono incomprensibili alla mentalità di questo mondo e
quindi sono definiti "gemiti ineffabili". Ma se ci orientiamo e
ci mettiamo a disposizione dello Spirito, Egli ci educa ai
pensieri di Dio e alla sua volontà e quindi ci conduce alla
conversione del cuore.

Basilica a Cana, ove Gesù compi il primo miracolo |
Giovanni 2, 1-11 In quel tempo. Vi fu una festa di nozze a
Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù
con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse:
«Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora
giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica,
fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei
Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro:
«Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di
nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi
gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che
dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i
servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti
mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto,
quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli
manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Giovanni, con il miracolo di Cana posto all'inizio del suo Vangelo, per un
verso sconcerta poiché, tra le tante fatiche e dolori che gli uomini vivono,
Gesù incomincia i suoi segni, semplicemente, portando vino agli sposi in una
festa di nozze di poveri. Tanto più che è il primo dei sette "segni" che
Giovanni racconta tra i moltissimi che potrebbe raccontare (20,30) ed è,
addirittura, posto ai vertici della gloria di Gesù: "Manifestò la sua gloria
e i suoi discepoli credettero in lui" (2,11). Per un altro verso suggerisce
un significato teologico profondissimo: Gesù porta doni e rigenerazione al
mondo. Questo segno è posto alla fine di una settimana, al "settimo giorno",
tenendo presente che Giovanni inizia tutto il suo Vangelo con "in principio"
in perfetto parallelo con il richiamo dell'inizio del tempo della creazione
(Gen 1) e le nozze di Cana corrispondono alla pienezza e al completamento
della creazione (settimo giorno) e quindi al riposo di Dio. Il testo di
Giovanni si presenta carico di richiami, di storia biblica, di anticipazioni,
di progetti, di novità, tanto più che il seguito di questo miracolo, nello
stesso capitolo, è l'anticipazione di un gesto drammatico che tutti gli
evangelisti raccontano alla fine della vita di Gesù e che Giovanni invece
colloca qui, all'inizio come seguito delle nozze di Cana: e cioè la
purificazione del tempio e il tentativo di Gesù di scacciare dal tempio i
mercanti (Gv 2,13-22). In questo caso Giovanni anticipa il significato del
racconto del suo Vangelo: Gesù è il nuovo sposo che porta la gioia a coloro
che incontra ed è colui che rigenera la religiosità del popolo,
riconducendolo ad un rapporto coerente e fiducioso con Dio. Il matrimonio,
nella Scrittura, è preso a significato di un rapporto di alleanza profondo e
totale che Dio ha con il suo popolo (Israele è la sposa). Gesù interviene a
questo banchetto, ma manca il vino della gioia. Israele vive questo rapporto,
preoccupato del rispetto cavilloso e angoscioso della legge: manca persino
l'acqua perché le giare sono vuote. Le nozze di Cana rappresentano Israele
deluso. La madre di Gesù, Maria, non ricorre al capotavola, né ai capi
religiosi che sono incapaci di organizzare una vera festa. Il ruolo della
madre è ancora nel mondo dell'alleanza antica, ma ella riconosce il Messia,
ripone in lui la speranza, fa presente la situazione, pur attraverso un
atteggiamento che prende le distanze: "Non hanno più vino" e non "non abbiamo
vino". Maria capisce che ci sono le grandi carenze di Israele e solo Gesù può
porre rimedio. Ricorre a Gesù. "Non è ancora l'ora", dice Gesù. L'ora di Gesù
è la morte, il momento del capovolgimento totale, dell'amore pieno che cambia
il mondo. Anche allora sarà presente "la donna" (19,25): Maria. E se anche
non è ancora giunta la sua ora, la fede di Maria, custode della fedeltà con
Dio come la fede della sua futura comunità, è capace di costringerlo ad
iniziare i segni nuovi di Dio. Ora Maria invita a fare quello che Gesù
comanda, Ella non sa il futuro, ma è disposta a seguire e a far seguire Gesù
ovunque. Le giare di pietra ricordano la legge, vuote come il vecchio patto;
"per la purificazione.." indica che gli ebrei sono consapevoli della propria
indegnità; e infine le giare sono 6, un numero imperfetto. Sarà Gesù a
riempire di gioia, e mentre l'acqua scorre sul corpo, il vino entra nel corpo
e dà pienezza e amore (il simbolo del vino nel Cantico dei Cantici: 1,2;
7,10; 8,2). Gesù è presente, praticamente, alla fine della festa (le feste
del matrimonio duravano 7 giorni) e regala una gran quantità di vino (500 o
600 litri). Siamo solo all'inizio, ma Gesù si prepara ad annunciare la novità
del Padre e quindi a passare da questo mondo al Padre (13,1), dando l'acqua
nuova che zampilla per la vita eterna (4,14), che scaturisce dal suo costato
(19,34) insieme al sangue: acqua della vita e sangue di amore. La religiosità
che Gesù vuole proporre, allora, è consapevolezza di speranza, è accoglienza
coraggiosa, è attenzione ai bisogni veri delle persone, è coraggio di osare,
è novità per tutti coloro che sono rassegnati e delusi. Ogni religiosità,
anche la nostra, deve fare i conti con le nozze di Cana.
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