
PENULTIMA DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
detta «della divina clemenza» 19.02.2017
Giovanni 8, 1-11
Riferimenti : Baruc 1, 15a; 2, 9-15a - Salmo 105 - Romani 7,
1-6a |
Abbiamo peccato con i nostri padri, delitti e
malvagità abbiamo commesso. I nostri padri, in Egitto, non
compresero le tue meraviglie. Non si ricordarono della grandezza
del tuo amore e si ribellarono presso il mare, presso il Mar
Rosso. Ma Dio li salvò per il suo nome, per far conoscere la sua
potenza. |
Baruc 1, 15a; 2, 9-15a Direte in
quei giorni: «Il Signore ha vegliato su questi
mali e li ha mandati sopra di noi, poiché egli è
giusto in tutte le opere che ci ha comandato,
mentre noi non abbiamo dato ascolto alla sua
voce, camminando secondo i decreti che aveva
posto davanti al nostro volto. Ora, Signore, Dio
d’Israele, che hai fatto uscire il tuo popolo
dall’Egitto con mano forte, con segni e prodigi,
con grande potenza e braccio possente e ti sei
fatto un nome, qual è oggi, noi abbiamo peccato,
siamo stati empi, siamo stati ingiusti, Signore,
nostro Dio, verso tutti i tuoi comandamenti.
Allontana da noi la tua collera, perché siamo
rimasti pochi in mezzo alle nazioni fra le quali
tu ci hai dispersi. Ascolta, Signore, la nostra
preghiera, la nostra supplica, liberaci per il
tuo amore e facci trovare grazia davanti a
coloro che ci hanno deportati, perché tutta la
terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio».
Il libro è attribuito a Baruc,
noto come fedele segretario del profeta Geremia.
Anzi, egli divenne un personaggio tipico, "lo
scriba fedele della Parola di Dio" Il libro
contiene materiali diversi, sia per genere
letterario che per epoca di composizione. Si può
pensare ad un'antologia e il brano di oggi fa
parte di una Liturgia penitenziale (1,15b-3,8)
Il peccato è visto come rifiuto di ascoltare la
voce del Signore, disprezzo dei suoi
comandamenti, abbandono della sapienza da parte
del popolo d'Israele. Il popolo risulta diviso
in due gruppi: una parte abita a Gerusalemme e
nella terra d'Israele e un'altra parte vive
lontano, a Babilonia, pur guardando Gerusalemme
come centro spirituale. Di fronte a
comportamenti umani di peccato, come fari,
brillano la giustizia, la fedeltà, la bontà e la
misericordia di Dio. E' difficile stabilire con
precisione la data di composizione del libro, in
particolare dei primi cinque capitoli. Alcune
somiglianze con il libro di Daniele fanno
pensare al II sec. a.C. Il libro, almeno in
alcune sue parti (se non tutte), fu scritto
originariamente in ebraico o aramaico; ma il
testo che possediamo ci è pervenuto nella
versione greca dei LXX. Il libro di Baruc non fa
parte del canone ebraico: è un testo
deuterocanonico. Comunque si voglia leggere il
contesto, ci si ritrova sempre in una situazione
di dispersione, simile a quella dell'esilio. Il
profeta ammette che Dio è giusto in tutte le sue
opere e che la colpa e il male non vengono da
parte di Dio (v 9). Israele infatti sapeva ciò
che sarebbe avvenuto se avesse peccato. Ma ha
voluto ugualmente la maledizione (1,20). In tal
modo ha scelto la propria rovina "Tu, Signore,
hai fatto uscire il tuo popolo dall'Egitto... e
noi abbiamo peccato... siamo stati empi. Si
allontani da noi la tua ira. Salvaci per il tuo
nome". Il perdono viene invocato con due formule
precise: "Allontana da noi lo sdegno" (2, 13);
"liberaci" (2,14). Qui si invocano di nuovo una
salvezza e una liberazione; qui, finalmente, ci
si accorge a chi rivolgersi e a chi no,
consapevoli di chi può e chi non può; qui la
liberazione è il vero desiderio. Il popolo è
cosciente di dover vivere nella penitenza e
nella sottomissione al potere politico che gli
stranieri hanno imposto poiché è l'unico modo
per scontare i propri peccati e mantenere la
possibilità di vivere. Israele si affida al
Signore e alla preghiera che sorge da una terra
di dispersione. Solo in tal modo riesce
finalmente a creare una comunità, nonostante la
lontananza e la "diaspora". |
Romani 7, 1-6a O forse ignorate,
fratelli – parlo a gente che conosce la legge – che la legge ha
potere sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive? La donna
sposata, infatti, per legge è legata al marito finché egli vive;
ma se il marito muore, è liberata dalla legge che la lega al
marito. Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un
altro uomo mentre il marito vive; ma se il marito muore ella è
libera dalla legge, tanto che non è più adultera se passa a un
altro uomo. Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi,
mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto
alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui che fu
risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio.
Quando infatti eravamo nella debolezza della carne, le passioni
peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre
membra al fine di portare frutti per la morte. Ora invece, morti
a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla
Legge per servire secondo lo Spirito, che è nuovo.
L'umanità, inserita mediante la fede e il battesimo,
non solo è libera dal peccato (cap 6), ma è anche libera dalla
legge (cap 7). La legge regola i rapporti solo tra i vivi. La
morte li sospende come dimostra la legge matrimoniale (vv 2-3).
Con la morte di Gesù è stata vinta la legge anche in ciascuno di
noi perché con il battesimo, la morte mistica di ciascuno,
decade ogni diritto di proprietà, e siamo liberati dal dominio
della legge. Il credente, che col battesimo muore al peccato,
muore anche alla legge. Infatti essa non dà nessun aiuto per
superare il male, in pratica risulta solo il megafono di un male
esistente nel mondo e di cui non possiamo liberarci. Affidarci
solo alla legge e al rispetto della legge non provoca la vita né
la liberazione. Queste possono sprigionarsi solo in colui che si
è posto al seguito di Gesù risuscitato, nella fede. Solo allora,
finalmente, produce una fecondità nuova per la vita e non per la
morte "(vv 4b-5). Così, noi entriamo nel "regime nuovo dello
Spirito" che non si regola più sulla norma scritta, imposta a
ciascuno dall'esterno, capace solo di richiedere fatica e sforzi
infruttuosi di adesione. Lo Spirito anima il credente
dell'interno e lo muove verso una fecondità spontanea e gioiosa.

Tempio di Gerusalemme (ricostruzione) |
Giovanni
8, 1-11 In quel tempo. Il Signore Gesù si avviò verso il monte degli
Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da
lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i
farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e
gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che
ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di
accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di
voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi
di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno,
cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha
condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io
ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Questo
testo ha creato molti interrogativi sia per il linguaggio, che assomiglia di
più allo stile di Luca sia per la sua assenza negli antichissimi manoscritti
biblici del NT a noi giunti. Esso compare e si diffonde solo a partire dal
quarto o quinto secolo. Si ha quasi l'impressione che un racconto di questo
genere avesse creato disagio e fastidio nelle prime Chiese, tanto da supporre
che una lettura normale potesse provocare nei cristiani assuefazione al male
e superficialità. E' come se negli antichi manoscritti si fosse strappato una
pagina per evitare che le persone più fragili potessero scandalizzarsene. Si
parla, infatti, di una straordinaria disponibilità di Gesù alla misericordia.
E tuttavia non è un testo permissivo. Gesù ricupera la persona, le dà
l'opportunità di ripensare ciò che ha fatto, la incoraggia a riesaminare in
termini completamente nuovi la propria esistenza. E questo, senza passare
attraverso il castigo, o il giudizio degli uomini, pur avvalorato dalla legge
di Mosé. Gesù, che frequenta il tempio dalla mattina molto presto e che
raccoglie attorno a sé molte persone che si fermano estasiate ad ascoltarlo,
si vede portare davanti, strattonata e spinta in tutti i modi, una donna
accusata di flagrante adulterio da due gruppi di persone: scribi i farisei.
Non sembra che si voglia fare il processo, seduta stante, quanto piuttosto si
chiede il parere di Gesù su una grave infrazione della legge che formalmente
prevede la lapidazione. Probabilmente gli accusatori non sarebbero arrivati
subito a tanto, ma, certo, questo "gruppo del buon costume" organizzato in
Gerusalemme, avrebbe creato drammi e timori in questa donna e nei presenti,
ristabilendo ordine nel lassismo imperante, e, nel contempo, avrebbero
sfruttato un'occasione unica, lampante ed esaltante insieme, per mettere in
cattiva luce Gesù. Essi vogliono coglierlo in contraddizione: o con la legge
di Mosé o con la misericordia che spesso Gesù, richiama, facendo riferimento
al Padre Di fronte allo schiamazzo, alle urla decise e convinte delle proprie
ragioni, ripetute in modo sempre più violento dagli accusatori, di fronte
alla situazione onestamente pruriginosa e paradossale, ma anche chiarissima,
tutti si aspettano una conclusione rigida e definitiva che sfociasse nella
morte. Per procedere nella lapidazione, in caso di sentenza pronunciata dal
giudice, è necessario che qualcuno, per primo, cominciasse a scagliare una
prima pietra. E' il diritto-dovere che spetta al testimone sulla cui
testimonianza si sono basati processo e condanna. Così Gesù, che fa appello a
chi ritiene di avere diritto di iniziare l'esecuzione della sentenza di
morte, richiama un'altra verità, ancora più importante, che è quella della
coscienza di ciascuno e che nessuno conosce, tranne Dio. Poiché una
testimonianza bugiarda, in coscienza, avrebbe reso omicida il testimone, Gesù
formula una diversa verifica sul diritto di procedere all'esecuzione: "Chi è
senza peccato scagli la prima pietra". Ma, nel frattempo, Gesù assume un
atteggiamento assai diverso, non provocatorio e libero da giudizio. Scrivere
per terra è ricuperare tempo; lasciar sfogare senza fissare la persona che
accusa; accettare che nel cuore di ciascuno maturi il proprio giudizio. Si
sente, qui, la fermezza ed anche la fiducia che il rapporto religioso
corretto, ricostruito con Dio, sa fare il miracolo di una consapevolezza. Se
la donna non è condannata da nessuno, neppure Gesù condanna la donna. Egli,
che conosce a fondo il cuore delle persone, non è venuto per condannare, ma
per dare la vita al mondo (Gv 12,27). E però il richiamo alla legge morale,
come rapporto prezioso e insostituibile con Dio, fa aprire a Gesù gli
orizzonti verso il futuro coerente. "Non peccare più", dice Gesù. Così viene
lasciato alla coscienza un progetto futuro nuovo. Si ricuperino la libertà e
l'attenzione a Dio che per primo ci vuole bene e ci perdona, per aprire noi e
gli altri alla speranza. Gli accusatori si fermano a tempo e se ne vanno via.
O si resta fiduciosi e umili con Cristo, o ci si allontana. Davanti a Cristo
non si può essere veri e giustizieri, tranquilli e sicuri della propria
maschera. La nostra eresia è quella di pensare Cristo giudice, o addirittura
di pretenderlo. E invece dobbiamo essere noi a saperci verificare. Quanto
accettiamo la misericordia di Dio? Quanto restiamo induriti al seguito di
Cristo e giudici degli altri, senza avere il coraggio, almeno, di andarcene
consapevoli? Restare con il Signore nonostante il rifiuto di una nostra
verifica non ci fa intravedere la speranza e la salvezza. E così, ci ricorda
il Signore, "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio"
(Mt 21,31).
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