
VI Domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore
8 ottobre2017 Luca 17, 7-10
Riferimenti : Giobbe 1, 13-21 - Salmo 16 - Seconda lettera a
Timòteo 2, 6-15 |
Ascolta, Signore, la mia giusta causa, sii
attento al mio grido. Porgi l’orecchio alla mia preghiera: sulle
mie labbra non c’è inganno. Dal tuo volto venga per me il
giudizio,i tuoi occhi vedano la giustizia.Saggia il mio cuore,
scrutalo nella notte,provami al fuoco: non troverai malizia.
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Giobbe 1, 13-21 Un giorno
accadde che, mentre i suoi figli e le sue figlie
stavano mangiando e bevendo vino in casa del
fratello maggiore, un messaggero venne da Giobbe
e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine
pascolando vicino ad essi. I Sabei hanno fatto
irruzione, li hanno portati via e hanno passato
a fil di spada i guardiani. Sono scampato
soltanto io per raccontartelo». Mentre egli
ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un
fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato
alle pecore e ai guardiani e li ha divorati.
Sono scampato soltanto io per raccontartelo».
Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e
disse: «I Caldei hanno formato tre bande: sono
piombati sopra i cammelli e li hanno portati via
e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono
scampato soltanto io per raccontartelo». Mentre
egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I
tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e
bevendo vino in casa del loro fratello maggiore,
quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da
oltre il deserto: ha investito i quattro lati
della casa, che è rovinata sui giovani e sono
morti. Sono scampato soltanto io per
raccontartelo». Allora Giobbe si alzò e si
stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a
terra, si prostrò e disse: / «Nudo uscii dal
grembo di mia madre, / e nudo vi ritornerò. / Il
Signore ha dato, il Signore ha tolto, / sia
benedetto il nome del Signore!».
Giobbe (ebr. Iob) è la figura centrale
del più profondo e del più poetico dei libri
sapienziali dell'AT. Esiste un racconto in
prosa, che inquadra il testo poetico, e che ci
trasporta a Uz, a sud di Edom. Giobbe vi è
descritto come un importante pastore, ricco e
credente in Dio, la cui fedeltà è messa alla
prova per istigazione di Satana (vedi versetti
precedenti). I suoi beni e la sua stessa
famiglia conosceranno le peggiori catastrofi e
infine egli sarà colpito da una ripugnante
malattia. Il nemico di Dio e dell'uomo scommette
con Dio su Giobbe. Egli è fedele perché la sua
fedeltà gli produce benessere e ricchezza. Se
Dio lo prova e gli toglie questo benessere,
anche Giobbe rifiuterà Dio e lo bestemmierà. Dio
accetta e permetterà tutto ciò perché si fida di
Giobbe mentre Satana pretende di essere sicuro
che Giobbe sarebbe rimasto fedele solo nella
prosperità (2,6). Ambientata in un paese
favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico
Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un
fedele di Dio, non è ebreo perché è straniero.
La vicenda si svolge nella terra di Uz, che non
è territorio di Israele. In tal modo la
rivelazione al popolo d'Israele si completa
poiché si indica che Dio è attento e presente in
tutto il mondo e con tutti gli uomini. Perciò
Giobbe è una figura universale: la sua
esperienza appartiene ad ogni uomo, in ogni
tempo e luogo. Rappresenta l'uomo giusto, prima
ricco e felice, e poi improvvisamente colpito
dalla sventura. Perde i figli, i beni, la
salute. Sarà cacciato anche di casa dalla moglie
e si rifugerà su un mucchio di immondizie e di
cenere. La moglie, stanca di quest'uomo per la
sua fedeltà incrollabile, urlerà, alla fine:
"Rimani ancora saldo nella tua integrità?
Maledici Dio e muori!" (2,9). Lo stesso nome del
protagonista è drammaticamente eloquente: Giobbe
può significare: " dov'è il padre? "; e anche si
scrive nello stesso modo della parola "nemico".
Tutto questo prefigura il dramma e si potrebbe
interpretare il suo nome con la sua vita: "Sei
tu per me un Dio padre nemico?", oppure " Sarò
io nemico per te?" Oppure " Perché, Dio, mi
tratti come un nemico? ". Il dramma di Giobbe è
l'immagine che ci si fa di Dio. I tre amici
teologi di Giobbe - Elifaz, Bildad, Sofar -
hanno una incrollabile certezza che Dio, il
Potentissimo, è sempre giusto. Perciò, di fronte
a Giobbe, non sanno decidere altrimenti: Giobbe
è punito per qualche peccato nascosto. Se Giobbe
fosse giusto, non soffrirebbe. Giobbe sa che
questa conclusione è falsa, ma, nello scompiglio
del suo stato, vede ovunque segni dell'arbitrio
di Dio, con cui si lamenta, ma a cui, nello
stesso tempo, s'appella per il giudizio finale.
ll giusto invece, dice il libro di Giobbe,
sopporta la prova e ritrova prosperità e
felicità (42,10). Secondo l'opinione più diffusa
tra gli studiosi, il libro di Giobbe potrebbe
avere avuto origine tra il V e il III secolo a.
C.. Nelle due prime sezioni della Bibbia, la
Legge e i Profeti, Dio è al centro della storia;
egli infatti interviene nella storia del suo
popolo, dona la sua alleanza, stringe il suo
patto / promessa, si rivela nella sua legge. Il
profeta parla a nome di Dio e proclama la sua
Parola. Nei libri sapienziali, al contrario,
è l'essere umano al centro. Dio dà alla persona
umana piena responsabilità sul mondo e sulla sua
vita e il libro di Giobbe, nel suo contesto
sapienziale, si rivela come riflessione critica
dell'uomo sull'uomo, sulla sua ricerca della
felicità e sulla sofferenza, sui suoi giudizi su
Dio e il senso della propria giustizia. Egli
pretende di misurare la potenza assoluta di
Colui che è il mistero stesso, con il metro
umano. Se Dio è onnipotente e giusto, si pensa,
deve premiare il bene e castigare il male. E
invece ci si imbatte in un destino crudele dove
l'uomo, per quanto giusto, viene travolto dal
male e dalla sofferenza, entrambe lette
all'interno del disegno di Dio riguardo gli
uomini. E solo quando Giobbe cesserà di
pretendere giustizia (40,1ss), (42,1ss), la
misericordia del Signore farà giustizia. La Sua
giustizia si compirà finalmente in Giobbe che
avrà ritrovato l'illuminata e piena fede con
un'abbondanza che sorpassa di nuovo ogni misura
umana (42,10). Nonostante le 4 disgrazie (notare
il numero 4 che è l'orizzonte terrestre), Giobbe
reagisce, mostrando che la sua religiosità non è
interessata: "Nudo sono venuto al mondo e nudo
ne uscirò. il Signore dà, il Signore toglie, il
Signore sia benedetto". La scommessa finirà,
alla fine, con una benedizione. Non bisogna
infatti dimenticare che il Signore, nonostante
le apparenze, se crediamo, non ci abbandona mai. |
Seconda lettera a Timòteo 2, 6-15
Carissimo, / il contadino, che lavora duramente, dev’essere
il primo a raccogliere i frutti della terra. Cerca di capire
quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni
cosa. / Ricòrdati di Gesù Cristo, / risorto dai morti, /
discendente di Davide, / come io annuncio nel mio Vangelo, / per
il quale soffro / fino a portare le catene come un malfattore. /
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni
cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano
la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede: / Se moriamo con lui, con lui
anche vivremo; / se perseveriamo, con lui anche regneremo; / se
lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; / se siamo infedeli, lui
rimane fedele, / perché non può rinnegare se stesso. / Richiama
alla memoria queste cose, scongiurando davanti a Dio che si
evitino le vane discussioni, le quali non giovano a nulla se non
alla rovina di chi le ascolta. Sfòrzati di presentarti a Dio
come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e
che dispensa rettamente la parola della verità.
Questa lettera viene considerata "Il testamento spirituale
di Paolo" (sebbene tale espressione venga usata anche per il
discorso di addio agli anziani di Efeso: At 20,18-35; e il Card
Martini, prima di lasciare Milano, ce la commentò diverse
volte). Paolo è in carcere a Roma e scrive a Timoteo, mentre
lamenta la sua solitudine, che ha comportato la totale mancanza
di ogni difesa. Così i pagani lo considerano un malfattore e gli
ebrei un traditore mentre nessuno lo ha difeso. Tuttavia Paolo
non si rammarica poiché sente di vivere una grande comunione con
Gesù. E' anzi preoccupato del "mio Vangelo" che è quello genuino
di Gesù che egli fedelmente ed umilmente ha cercato di
interpretare e di comunicare. Si rivolge a Timoteo poiché si
fida della sua formazione e gli raccomanda di insegnare ad altri
perché a loro volta insegnino: "Tu dunque, figlio mio, attingi
sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai
udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a
persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro
volta anche altri" (2,1-2). Da queste preoccupazioni rivelate
perché diventino direttive per il tempo che verrà, e in cui
Paolo sa di non poter essere presente, l'attenzione non è
istituzionale o di potere da trasmettere, ma è per una
successione didattica: Trasmettere un messaggio che sia un
insegnamento genuino e coerente: è questo il primo compito
dell'autorità, della Comunità cristiana, di ogni fedele adulto.
Per aiutare Timoteo a capire che ad ogni investimento devono
accompagnarsi sforzo, perseveranza e sacrificio, Paolo ricorda
tre condizioni adulte di vita: il soldato, che non si lascia
distrarre dal suo compito, l'atleta che lotta con correttezza
secondo le regole, e il coltivatore che raccoglie in abbondanza
a secondo dei suoi sforzi (2,3-7). Il vero modello, tuttavia, è
Gesù: "Ricordati di Gesù Cristo" che lottò fino alla morte e,
passando attraverso la morte, è risorto. E dopo Gesù, che è il
vero modello, Paolo, in amicizia, osa proporsi come secondo
testimone da imitare. E a Timoteo svela anche il significato
della sofferenza vissuta con Gesù: essa è carica di forza ed è
sostegno e intercessione a favore di chi si ama: "Perciò io
sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché
anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme
alla gloria eterna" (2,10). Ci sono quattro parallelismi:
corrispondono alle scelte che facciamo. Alla morte con Lui
incontriamo la risurrezione, alla sofferenza di chi è fedele
viene data la gloria, al rinnegamento dell'uomo Cristo ci prende
sul serio e giudica; ma al quarto si rompe il parallelismo: "se
siamo infedeli" Cristo rimane fedele ed è sempre misericordioso.
Il testo di oggi si chiude con un richiamo eccezionalmente
prezioso poiché ha fatto soffrire molto anche Paolo nella sua
esperienza Pastorale: "Si evitino le vane discussioni". Infatti
la parola di coloro che vogliono spingere verso l'empietà,
attraverso le chiacchiere vuote e perverse, si propaga come una
cancrena" (2,16-17). Il vero antidoto e la vera fiducia nascono
dalla forza della Parola di Dio. La Parola di Dio non è
incatenata" (v 9). Il cristiano si intravede nel suo servizio
gratuito e nella sua fiducia |
Luca
17, 7-10 In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Chi di voi, se ha un
servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo:
“Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da
mangiare, strìngiti le vesti ai fianchi e sèrvimi, finché avrò mangiato e
bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel
servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete
fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Con tanto parlare
della dignità dell'uomo e del lavoro, della preziosità dell'uomo agli occhi e
al cuore di Dio, di Gesù che serve, anzi, addirittura lava i piedi ai
discepoli, le parole di questo vangelo sembrano contraddittorie e persino
insensibili. Bisogna leggerle nel contesto: il cap. 17 si apre con alcune
parole di Gesù molto rigorose sullo ‘scandalo' e sul ‘perdono; gli apostoli
sono smarriti -"Signore, aumenta la nostra fede"- poi c'è il nostro brano per
continuare con l'episodio dei dieci lebbrosi di cui solo uno, samaritano,
torna a ringraziare, e con l'esortazione a pregare sempre ‘senza stancarsi
mai', e infine con l'annuncio della sua passione. "Quando avrete fatto tutto
quello che vi è stato ordinato dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto
quanto dovevamo fare". L'esempio è preso dalla vita: il padrone pretende
dal suo servo quello che il servo è tenuto a fare. Ma qui che cosa vuol dire
Gesù? E noi siamo servi o siamo liberi (‘voi siete stati chiamati a
libertà!'). A me pare che l'idea sia quella del servizio e non della
schiavitù; dello stesso servizio che Gesù prestò lavando i piedi ai
discepoli, ma con la sottolineatura che "in servizio" siamo sempre e che
questo non deve farci credere di essere bravi o presumere di fare qualcosa di
straordinario. Infatti siamo akreioi, parola che viene tradotta dal greco in
modo inesatto, perché la lingua greca antica è estremamente duttile ed ogni
parola ha una vasta gamma di significati e di sfumature. Qui potrebbe
semplicemente voler dire ‘siamo sempre in servizio' ‘siamo semplicemente
servi', senza presumere per questo di aver fatto chissà che cosa. Certo,
siamo utili nella misura in cui non ne approfittiamo per il nostro personale
interesse o per accampare chissà quali diritti. Siamo ‘servi del Signore',
esattamente come Gesù, il Servo di Yahveh, che nella vita realizza il
progetto d'amore di Dio. Così anche noi non siamo ‘inutili' perché
espressione di un pensiero d'amore di Dio, ma siamo ‘gratuiti' perché il
nostro vanto non è quello di portare avanti noi stessi, ma di contribuire a
spianare la via al Regno di Dio, cioè al Suo Amore. Allora si diceva "siamo
servi inutili"; oggi possiamo ugualmente dire "siamo gocce che riflettono, se
siamo fedeli alla nostra vocazione cristiana, l'infinito splendore dell'amore
di Dio". Certo, dobbiamo rendercene conto, senza nasconderci dietro false
modestie o malcelate presunzioni. |