 II Domenica dopo l'Epifania
19 gennaio 2020
Gv 2, 1-11
Riferimenti : Nm 20, 2. 6-13 - Sal 94 -. Rm 8, 22-27 |
| Noi crediamo, Signore, alla tua parola. Venite,
cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con
canti di gioia. R Entrate: prostràti, adoriamo, |
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Nm 20, 2. 6-13 In quei giorni.
Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un
assembramento contro Mosè e contro Aronne.
Allora Mosè e Aronne si allontanarono
dall’assemblea per recarsi all’ingresso della
tenda del convegno; si prostrarono con la faccia
a terra e la gloria del Signore apparve loro. Il
Signore parlò a Mosè dicendo: «Prendi il
bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la
comunità e parlate alla roccia sotto i loro
occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai
uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da
bere alla comunità e al loro bestiame». Mosè
dunque prese il bastone che era davanti al
Signore, come il Signore gli aveva ordinato.
Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti
alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o
ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da
questa roccia?». Mosè alzò la mano, percosse la
roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua
in abbondanza; ne bevvero la comunità e il
bestiame. Ma il Signore disse a Mosè e ad
Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo
che manifestassi la mia santità agli occhi degli
Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea
nella terra che io le do». Queste sono le acque
di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il
Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a
loro. Numeri 20, 2. 6-13 Il
racconto si inquadra nella fatica del popolo
d'Israele di orientarsi nel cammino della
liberazione e nel coraggio di affidarsi
veramente a Dio, con speranza. Il popolo è in
pena per l'acqua che manca e la sofferenza si
amplifica per la memoria di quel frammentario
benessere dato dalla varietà di cibo che l'acqua
permetteva in Egitto: nei versetti precedenti si
parla di mancanza di semi, di fichi, di uva e
melograni. Il racconto ha delle analogie con uno
stesso racconto riportato nel libro dell'Esodo
(17,1-7); ma questa ripetizione vuole,
probabilmente, dare significato al divieto e
quindi alla impossibilità, per Aronne e Mosè, di
entrare nella terra promessa. Siamo nel luogo di
"Meriba" che significa "contesa" e il popolo
discute, anzi formula una specie di giudizio e
tribunale: si può dire che denuncia Dio stesso e
Mosé. E' inquieto del proprio futuro e teme la
desolazione e la morte. Il Signore sa
comprendere le esigenze del popolo e la sua
paura. Perciò Dio non si scandalizza dello
sgomento, ma invita sempre ad avere fiducia e a
superare l'angoscia. E tuttavia la paura nasce
dalla propria insicurezza, dalla difficoltà di
non saper trovare soluzioni, dalla dipendenza.
Perciò Dio semplicemente ordina di "parlare alla
roccia". Dice a Mosè: "Prendi il bastone; tu e
tuo fratello Aronne convocate la comunità e
parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa
darà la sua acqua; tu farai uscire per loro
l'acqua dalla roccia e darai da bere alla
comunità e al loro bestiame". Mosè raduna il suo
popolo in assemblea ma non esegue subito le
parole del Signore. Anzi Mosé e Aronne sono
travolti, essi stessi, da questa insicurezza e
si ribellano alle pretese e alle accuse.
Ritengono giusto che ci si debba difendere e
quindi rispondono loro che non sono in grado di
soddisfarli per ciò che chiedono, come se il
cammino che hanno intrapreso verso la libertà
fosse responsabilità loro. "Mosè disse loro:
«Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse
uscire acqua da questa roccia?»" (v10). Il testo
prosegue nell'opera di mediazione di Mosè che
accetta di far scaturire l'acqua dalla roccia.
La sua titubanza, tuttavia, viene manifestata
dal fatto che Mosè non si limita a parlare alla
roccia, come aveva proposto, ma usa il bastone
che è una specie di garanzia, segno di comando
ma anche un talismano che è servito davanti a
Faraone a mostrare la potenza di Dio. In più,
Mosè ha battuto due volte la roccia col bastone.
L'autore biblico rileva questa insicurezza, in
Mosè, per mostrare la diffidenza e la esitazione
nei confronti di Dio.
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Rm 8, 22-27 Fratelli,
sappiamo che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie
del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo
le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella
speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se
è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già
vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non
vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche
lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo
infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso
intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori
sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i
santi secondo i disegni di Dio. Romani. 8,
22-27 Il cap 8 della Lettera ai Romani inizia con una
garanzia: "Ora, dunque, non c'è nessuna condanna per quelli che
sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita
in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della
morte" (vv1-2). La legge di Mosè non liberava dal peccato e
dalla morte, ora invece siamo stati coinvolti nella legge dello
Spirito. Così siamo trasfigurati poiché possiamo dire a Dio: "Tu
sei mio papà" e possiamo considerarci veramente suoi figli: «E
voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella
paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi,
per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». (v 15). L'adozione
a figli non si riscontra in altri testi della Scrittura, salvo
che in Paolo. Sembra che Paolo abbia attinto alla prassi
giuridica greco-romana secondo la quale, i figli adottivi, una
volta integrati nella famiglia, godono gli stessi diritti dei
figli naturali e possono partecipare all'eredità. Il testo, che
leggiamo oggi nella liturgia, all'interno di questa novità del
nascere nello Spirito, ci parla di tre "gemiti", e il richiamo
del gemito è accompagnato dal ricordo delle doglie del parto.
Tutto il brano ha, infatti, un respiro di speranza, di vita e di
rigenerazione, non certo di morte. - Il gemito della creazione:
essa è stata creata splendida dalla potenza di Dio: "tutta
insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad
oggi" (v 22) e rivela il dramma dell'essere stata deturpata,
sporcata e corrosa dalla nostra noncuranza e dal nostro
sfruttamento, sottomessa alla corruzione dell'inquinamento e
della guerra. - Il gemito del cuore umano: "Anche noi, che
possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente
aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo"
(v 23 ). Noi abbiamo coscienza della nostra responsabilità e
sentiamo i nostri limiti e le nostre paure, insieme con le
nostre urgenze e le nostre ossessioni e cupidigie. Stiamo
cercando la liberazione dallo Spirito per rinnovare il mondo.
Ma, nella nostra confusione e pochezza, "se abbiamo lo stesso
destino e viviamo nella stessa speranza per cui attendiamo con
perseveranza", noi abbiamo un compito fondamentale: riempire
questa attesa, aprire il cuore e aiutare il mondo al cambiamento
nella preghiera. Ma noi non sappiamo pregare. Le nostre
invocazioni sono solo tentativi per fare aderire Dio ai nostri
progetti.
 
Cana di galilea-chiesa del primo miracolo - Giara ove Gesù
cambiò acqua in vino |
Gv 2, 1-11 In quel tempo. Vi fu una festa di
nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze
anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù
gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è
ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi
dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale
dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse
loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro
di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed
essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che
dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i
servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti
mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto,
quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli
manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Giovanni 2, 1-11 E' la terza manifestazione (dopo l'Epifania) del
volto di Dio attraverso Gesù. Qui siamo in un clima di festa, di gioia, di
gratuità, di superfluo. Di quel "di più" che rende appagata e appetibile la
vita, che la fa traboccare sul piano del contribuire ad una felicità. Infatti
una festa di nozze è ricca di promesse, di speranze, di vita: per questo
tutto deve svolgersi ed essere nel modo migliore. E il vino rappresenta
l'esuberanza della festa, la possibilità che tutto diventi danza, piacere di
stare insieme, desiderio appagato. Ed è sempre l'occhio di una donna a
vigilare che tutto scorra senza intoppi, la sua iniziativa (nonostante la
risposta frettolosa e -sembrerebbe- urtante del Figlio) che supera
addirittura l'attesa, anche se non sospetta l'incredibile che avverrà. Ma ci
sono anche collaboratori, di solito non considerati. Ci pensate alla fatica
di riempire d'acqua (dal pozzo) alle giare, recipienti di pietra pesanti?
Sono sei e contengono ciascuna da 80 a 120 litri. Quindi è tutto un
andirivieni dal pozzo al banchetto, silenzioso ma alacre per eseguire
l'ordine un po' strano di Gesù: "Riempitele fino all'orlo". E poi lo stupore
per il vino che si ritrovano a portare all'assaggio del direttore della
mensa, e la gioia per essere stati attori di questo primo "segno" di Gesù. Ci
vuole proprio la prontezza di rispondere senza replicare, ma aprendo subito,
al "fate quello che vi dirà". È la consapevolezza che Gesù non si ritrae mai,
anche se non concede molto alle parole, quando c'è da eliminare un
turbamento, o da sottolineare che ci vuole un superfluo, un di più per creare
gioia e festa vera, condivisa, che non va assolutamente trascurata, tanto
meno disprezzata. |