
IV Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore
20 settembre 2020
Gv 6, 24-35
Riferimenti : Is 63, 19b – 64, 10 - Salmo 76 - Eb 9, 1-12 |
| Vieni, Signore, a salvare il tuo popolo. Nel
giorno della mia angoscia io cerco il Signore, nella notte le
mie mani sono tese e non si stancano; l’anima mia rifiuta di
calmarsi. Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio
spirito. |
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Is 63, 19b – 64, 10 In quei
giorni. Isaia pregò il Signore, dicendo: «Se tu
squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te
sussulterebbero i monti, come il fuoco incendia
le stoppie e fa bollire l’acqua, perché si
conosca il tuo nome fra i tuoi nemici, e le
genti tremino davanti a te. Quando tu compivi
cose terribili che non attendevamo, tu scendesti
e davanti a te sussultarono i monti. Mai si udì
parlare da tempi lontani, orecchio non ha
sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori
di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia
la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco,
tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di
te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo
divenuti tutti come una cosa impura, e come
panno immondo sono tutti i nostri atti di
giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le
nostre iniquità ci hanno portato via come il
vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si
risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi
nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in
balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei
nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che
ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.
Signore, non adirarti fino all’estremo, non
ricordarti per sempre dell’iniquità. Ecco,
guarda: tutti siamo tuo popolo. Le tue città
sante sono un deserto, un deserto è diventata
Sion, Gerusalemme una desolazione. Il nostro
tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri
ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco;
tutte le nostre cose preziose sono distrutte».
Isaia 63, 19b - 64,10.
Questo testo è una preghiera
liturgica-penitenziale ricca di riflessione e
splendida nella sua poesia. E' una supplica
collettiva di un popolo che ha alle spalle lo
splendore di una salvezza ottenuta dalla
misericordia e dalla libertà di un Dio che lo ha
sostenuto quando era povero e disarmato, e nelle
sue traversie storiche lo ha condotto. Gli
esuli, che stanno tentando di restaurare il
nuovo rapporto di popolo con Dio, continuano ad
avere davanti agli occhi una Gerusalemme
distrutta, la discordia nel popolo tornato e
quello trovato sul posto. Non c'è pace nella
lacerazione e nella diffidenza reciproca. Pochi
versetti sopra, la preghiera si rivolge a Dio
come Padre: "Tu sei nostro padre, poiché Abramo
non ci riconosce e Israele non si ricorda di
noi. Tu, Signore, sei nostro Padre, da sempre ti
chiami nostro Redentore". "Solo tu sei il
nostro Padre" perché non ci sono più padri a cui
rivolgersi. "Abramo non ci riconosce e Israele
(Giacobbe) non si ricorda di noi" (v 16). Solo
Dio è Padre. E questa è la prima volta che si
applica a Dio questo attributo nella Scrittura.
Gli ebrei erano restii a chiamare Dio Padre
come, spesso, i popoli pagani chiamavano i loro
dei. Un tale linguaggio avrebbe facilmente
equivocato su ipotetici matrimoni con "le figlie
degli uomini", come la mitologia pagana, invece,
ricordava facilmente. I progenitori del popolo,
Abramo e Giacobbe, giacciono nella sceol
(gl'inferi: il luogo dei morti) e non sono in
grado di soccorrere i vivi. Il vero aiuto può
venire solo da Dio che si è mostrato Padre
quando ha liberato il popolo dall'Egitto. Ma Dio
è anche Redentore come il parente stretto che
riusciva a raccogliere una somma sufficiente per
liberare lo schiavo, proprio parente, o
addirittura accettava di sostituire lo schiavo
per liberarlo e prendere il suo posto. Ora,
purtroppo, pensa il popolo pentito, non ci sono
padri e non ci sono possibili redentori: resta
solo Dio che è l'unica speranza nuova. Il testo
riassume la memoria riconquistata della potenza
di Dio liberante, del proprio abbandono, e
rilegge la desolazione della città deserta e del
Tempio distrutto come prova del male avvenuto e
quindi come prova del castigo di Dio. "Se tu
scendessi..." La speranza porta il popolo a
sperare una nuova manifestazione di Dio mentre
riconosce i propri peccati e i propri
tradimenti.
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Eb 9, 1-12 Fratelli, anche
la prima alleanza aveva norme per il culto e un santuario
terreno. Fu costruita infatti una tenda, la prima, nella quale
vi erano il candelabro, la tavola e i pani dell’offerta; essa
veniva chiamata il Santo. Dietro il secondo velo, poi, c’era la
tenda chiamata Santo dei Santi, con l’altare d’oro per i profumi
e l’arca dell’alleanza tutta ricoperta d’oro, nella quale si
trovavano un’urna d’oro contenente la manna, la verga di Aronne,
che era fiorita, e le tavole dell’alleanza. E sopra l’arca
stavano i cherubini della gloria, che stendevano la loro ombra
sul propiziatorio. Di queste cose non è necessario ora parlare
nei particolari. Disposte in tal modo le cose, nella prima tenda
entrano sempre i sacerdoti per celebrare il culto; nella seconda
invece entra solamente il sommo sacerdote, una volta all’anno, e
non senza portarvi del sangue, che egli offre per se stesso e
per quanto commesso dal popolo per ignoranza. Lo Spirito Santo
intendeva così mostrare che non era stata ancora manifestata la
via del santuario, finché restava la prima tenda. Essa infatti è
figura del tempo presente e secondo essa vengono offerti doni e
sacrifici che non possono rendere perfetto, nella sua coscienza,
colui che offre: si tratta soltanto di cibi, di bevande e di
varie abluzioni, tutte prescrizioni carnali, valide fino al
tempo in cui sarebbero state riformate. Cristo, invece, è venuto
come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più
grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non
appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre
nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma
in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione
eterna. Ebrei 9, 1-12. Il Figlio è il sommo
sacerdote. Così il cap.8 ci presenta Gesù: "Noi abbiamo un sommo
sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono
della Maestà nei cieli, 2ministro del santuario e della vera
tenda, che il Signore, e non un uomo, ha costruito". E
quindi, oggi, leggiamo il confronto tra la liturgia del sommo
sacerdote della Prima Alleanza e quella di Gesù, confronto tra
la purificazione del popolo d'Israele e quella unica e completa,
portata da Gesù per tutta l'umanità. Ora, nel capitolo
successivo, ritornano a delinearsi, con molta attenzione e molti
particolari, le prescrizioni che legavano l'Alleanza al culto
del Tempio. La particolareggiata e minuziosa descrizione fa
memoria delle prescrizioni dell'Esodo (capp 25; 36) e manifesta
la competenza e l'esperienza ebraica sacerdotale. Si parla di
una prima tenda e ed una seconda tenda (il Santo dei Santi) e il
richiamo è per il santuario del deserto. L'essenziale della
riflessione non è stato il culto dei sacerdoti ma il servizio
compiuto, in prima persona, dal sommo sacerdote nella seconda
tenda, richiamando, insieme, il giorno del Kippur. Solo in
quell'unico giorno, e in nessun altro momento o circostanza,
poteva accedere per purificare il luogo che, per sua forza,
l'impurità poteva contaminare tutto e rendere impresentabile
l'offerta, anche se ciò avveniva inconsapevolmente. Quei riti
dovevano garantire che da quel giorno tutte le contaminazioni
erano dissolte e il Santo dei Santi veniva decontaminato in modo
da poter ricevere ed accogliere il Dio Santo, il grande ospite
del Tempio d'Israele. L'autore vuole così sottolineare
l'unicità del rito annuale di purificazione per preparare
l'unico sacrificio da parte di Gesù. E introduce il tema del
sangue. Ci si rifà alle origini, al tempo dell'uscita
dall'Egitto, quando, ovviamente, non si parlava del Tempio,
anche se è continuamente sottinteso. La tenda è espressione del
tempo presente, dice l'autore, con offerte di doni e abluzioni e
il sommo sacerdote purificava con il sangue degli animali.
Valgono per il tempo dell'attesa. Ma "lo Spirito Santo
intendeva mostrare che non era ancora aperta la via del
santuario definitivo". "È Gesù colui che viene nella tenda
perfetta, non costruita da mano d'uomo, non appartenente alla
creazione, e vi entra una volta per sempre con il suo sangue ".
In tal modo ottiene una redenzione eterna.
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Sinagoga
di Cafarnao
Gv 6, 24-35 In quel tempo. Quando la folla vide che il Signore Gesù non
era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla
volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli
dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in
verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Date vi da fare non per il
cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il
Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo
sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere
di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui
che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché
vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la
manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal
cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che
vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo,
quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la
vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù
rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi
crede in me non avrà sete, mai!». Giovanni 6, 24-35.
Oggi, generalmente, nel nostro mondo occidentale anche nell'ambito del pane
vi sono molte sofisticazioni; addirittura si sostituisce spesso e volentieri
il pane con qualcosa di più solleticante e ricercato. Si è perso il senso del
pane come cibo necessario per l'esistenza, come elemento primario per la fame
di tutti. Qui, nel vangelo di questa domenica, viene proposto l'equivoco:
siamo nel contesto della condivisione del pane con la folla del giorno prima,
quando tutti poterono sfamarsi a sazietà e gratuitamente. Un personaggio così
non è da lasciar perdere. Naturalmente non hanno capito niente e Gesù
spiega: bisogna darsi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo
che rimane per la vita eterna. Il Pane vero è quello disceso dal cielo,
cioè Lui, e la caratteristica di questo pane è di dare la vita al mondo.
Torna il discorso del vero senso del segno del pane: la condivisione. Ma è
una condivisione che passa attraverso il Signore con una finalità precisa:
dare la vita. Dire e ascoltare queste parole con serietà implica una
trasformazione di mentalità: non si tratta, in effetti e necessariamente, di
offrirsi per la morte (Dio è il Dio dei viventi), ma di spendere la propria
vita e il proprio pane con gli altri; non gli altri lontani, ma quelli che
hai vicino e di cui faresti, a volte, volentieri a meno. Ecco perché
bisogna purificare il nostro cercare Gesù, che per lo più è di là dal mare,
cioè molto lontano da come concepiremmo noi il suo operato e le sue parole.
Sempre con Gesù occorre fare dei salti qualitativi, domandandoci, ad esempio,
riguardo al vangelo di oggi che cosa vuol dire per me sentire che Gesù è il
pane della vita, in un contesto così tenebroso per le guerre e le violenze,
così gretto e chiuso per gli egoismi degli uomini, così diffidente anche
nelle disponibilità.
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