Un re che ama e dona tutto se stesso
19 Novembre 2005 Anno B
Matteo 25,31-46
Riferimenti : Ezechiele 34,11-12.15-17;
Salmo 22; 1 Corinzi 15,20-26a.28
Allora il re dirà a quelli che stanno
alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno
preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi
avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere [...]. Allora i
giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti
abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? [...] Rispondendo,
il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno
solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.
Le letture liturgiche della
messa di Cristo Re hanno lo scopo non tanto di dirci che Gesù è re, ma di farci
comprendere la natura inattesa e sconvolgente della sua regalità. Gesù è re, ma
la sua regalità è diversa da quella del mondo. Nella prima lettura Ezechiele
(34,11-17), deluso dai pastori d’Israele (re, sacerdoti e maestri) che pensano a
se stessi anziché al gregge, sogna un pastore diverso: un pastore che non
«disperde», ma «raduna»; conduce al pascolo le sue pecore e le fa riposare; va
in cerca della pecora smarrita e fascia quella ferita. Sono tutti tratti che
ritroviamo nei Vangeli, applicati a Gesù. Il re Messia è un re per gli altri: la
sua regalità è dono di sé e servizio, non dominio. Predilige i poveri e i
deboli, non i forti.
Ma è il passo evangelico (Mt 25,31-46) che maggiormente ci svela il lato più
sorprendente della regalità di Gesù. La parabola del giudizio (Mt 25,31-36) è
una pagina che si impone all’attenzione non solo per la forza del suo messaggio,
ma anche per la suggestione della sua scenografia. Tre sono le sue
parti: l’introduzione scenica che presenta la venuta gloriosa del Figlio
dell’uomo, la convocazione dei popoli e la loro separazione (25,31-33); il
dialogo del re distribuito in due dittici, prima con quelli di destra e poi con
quelli di sinistra (25,34-45); infine la conclusione, che descrive l’esecuzione
delle sentenze (25,46).
La parte più ampia è riservata al duplice dialogo, e l’insistenza cade sulle
opere di misericordia (l’accoglienza o il rifiuto dei bisognosi), che vengono
enumerate quattro volte.
Il giudice è chiamato «Figlio dell’uomo» e «re» e gli interlocutori lo
riconoscono come «Signore». La presentazione è, dunque, solenne e gloriosa, ma a
nessuno può sfuggire che questo re è Gesù di Nazareth, colui che fu perseguitato
e crocifisso, rifiutato, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza
della condizione umana: la fame, la nudità, la solitudine. Ed è un re che si
identifica con i più umili, i più piccoli: anche nella sua funzione di giudice
universale, Gesù rimane fedele a quella logica di solidarietà che lo guidò in
tutta la sua esistenza terrena. Ed è un re che vive sotto spoglie sconosciute:
sotto le spoglie dei suoi «piccoli fratelli». Gesù è un re «glorioso», ma la sua
gloria è il trionfo dell’amore che si è manifestato sulla croce. A volte si
pensa che Gesù si sia conquistato la regalità con la croce, ma una volta
conquistata la sua regalità è come quella di tutti, fatta di gloria, potenza e
dominio. Invece no: la croce ha manifestato la natura della regalità di Gesù,
fatta di amore e dono di sé.
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