III Domenica di Quaresima
di Abramo
11 marzo 2012

Giovanni 8, 31-59
Riferimenti : Esodo 32, 7-13b - Salmo   - Prima Tessalonicesi. 2, 20 - 3, 8
Lodate il Signore e invocate il suo nome, proclamate tra i popoli le sue opere.  Cantate a lui canti di gioia, meditate tutti i suoi prodigi.  Gloriatevi del suo santo nome: gioisca il cuore di chi cerca il Signore.  Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto.  Ricordate le meraviglie che ha compiute, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca:  voi stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto.  È lui il Signore, nostro Dio, su tutta la terra i suoi giudizi.  Ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni.
Esodo 32, 7-13b

In quei giorni. Il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».

Il Signore vuole concludere un patto con il suo popolo attraverso un documento che consegna nelle mani di Mosé: " le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio" (Es 31,18). Ma quello che avviene con il Signore sul Sinai, nei molti giorni di permanenza lassù, è totalmente nascosto: non c'è comunicazione, non ci sono aggiornamenti. Quello che il popolo sperimenta è il silenzio che si protrae nel tempo. A questo punto il popolo si impaurisce poiché non ha ancora imparato a fidarsi di Dio, sta camminando in una realtà ostile che è il deserto e che non conosce, è rimasto privato della presenza responsabile e autorevole da cui si poteva pretendere la soluzione dei diversi problemi di sopravvivenza. Il Dio poi, di cui poteva fidarsi, è un Dio silenzioso, nascosto, non rappresentabile in nessuna forma. Il popolo, perciò, vedendo che Mosé tarda a scendere dal monte, fa ressa intorno ad Aronne e gli dice: "Fa per noi un Dio che cammini alla nostra testa perché a Mosé, quell'uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto" (32,1). Il compito viene dato al fratello di Mosè, responsabile del culto del popolo, perché faccia fondere un vitello in metallo tratto dagli ornamenti che il popolo ha portato dall'Egitto. E, alla fine, il popolo dice: "Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto”. Da tempi remoti il toro era, in Egitto, l'immagine del grande Dio Ptah di Memphis, un Dio creatore dal quale dipendeva la fecondità dei campi e degli animali. Attorno a templi maestosi che erano stati innalzati a questo idolo si svolgevano molte cerimonie religiose. Gli Ebrei erano, probabilmente, rimasti affascinati. Hanno così ritenuto di poter entrare in un rapporto con Dio più consistente e, nello stesso tempo, hanno immaginato, con supponenza, di voler possedere Dio e di obbligarlo ai propri progetti. Per il popolo d'Israele, un’immagine è, infatti, il tentativo di possedere Dio, ricattarlo e costringerlo. I popoli antichi usavano, per vincere, far precedere gli eserciti da una statua o dall’emblema di un Dio. Così la rappresentazione di questo animale non è, probabilmente, un altro Dio, ma la rappresentazione di quel Dio che li ha liberati (v.8). Vengono descritte, in tal modo, la delusione e l'ira di Dio che vuole distruggere il popolo. Anzi Dio rinuncia a sentire proprio questo popolo, tanto è vero che parla, rivolto a Mosé, del "tuo popolo che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto; è un popolo che non capisce, "di dura cervice, testardo e traditore". “Perciò, dice il Signore, desidero liberarmi di lui e poiché l'unico ad esser rimasto fedele sei tu, Mosè, farò di te una grande nazione". Mosé ha il coraggio di andare oltre le parole di Dio perché ormai conosce il cuore di Dio e quindi non accetta questa soluzione, molto interessante egoisticamente. Egli continua a mantenere il suo ruolo di mediatore e sta dalla parte del più debole. "Mosé cominciò a supplicare", ma il verbo significa piuttosto "incominciò ad accarezzare il volto del Signore". Mosé accetta di essere il figlio amato che gioca con il padre e usa tutte le sue risorse per poter portare il padre ad un sorriso, E' un testo bellissimo, questo, nella Scrittura. Mosé ha scoperto veramente il volto di Dio che dà fiducia e garantisce confidenza. In un rapporto di reciproca confidenza, il Signore chiede: "Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori." Mosè osa rispondere con molte motivazioni che, alla fine, fanno riferimento con fiducia all'amore di Dio e dice: "Desisti dall'ardore della tua ira e abbandona il tuo proposito". Il testo conclude: " Il Signore si pentì del male che aveva minacciato "(32, 14). Il credente scopre la bellezza e l’amore di Dio, crede in Lui e prende le parti del più debole. E’ la nostra vocazione che dobbiamo imparare dall’unico mediatore che è Gesù

Prima Tessalonicesi. 2, 20 - 3, 8

Fratelli, Siete voi la nostra gloria e la nostra gioia! Per questo, non potendo più resistere, abbiamo deciso di restare soli ad Atene e abbiamo inviato Timòteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede, perché nessuno si lasci turbare in queste prove. Voi stessi, infatti, sapete che questa è la nostra sorte; infatti, quando eravamo tra voi, dicevamo già che avremmo subìto delle prove, come in realtà è accaduto e voi ben sapete. Per questo, non potendo più resistere, mandai a prendere notizie della vostra fede, temendo che il tentatore vi avesse messi alla prova e che la nostra fatica non fosse servita a nulla. Ma, ora che Timòteo è tornato, ci ha portato buone notizie della vostra fede, della vostra carità e del ricordo sempre vivo che conservate di noi, desiderosi di vederci, come noi lo siamo di vedere voi. E perciò, fratelli, in mezzo a tutte le nostre necessità e tribolazioni, ci sentiamo consolati a vostro riguardo, a motivo della vostra fede. Ora, sì, ci sentiamo rivivere, se rimanete saldi nel Signore.

Paolo ha molta nostalgia della comunità di Tessalonica da cui è fuggito perché un gruppo di Ebrei, preoccupati del messaggio cristiano come di una pericolosa eresia, e ancor più sconcertati dalla passione per l’evangelizzazione dell’apostolo, ha tramato contro la comunità stessa, mettendo in pericolo Paolo e gli stessi cristiani. Questi hanno accolto la predicazione con entusiasmo anche se hanno subito prove da parte degli ebrei. La fuga repentina di Paolo lo ha, comunque, angosciato perché teme che l’annuncio, appena abbozzato, del Vangelo non sia stato sufficientemente assimilato. Paolo vede nel susseguirsi degli avvenimenti l’azione di Satana, l’avversario della salvezza. (3,5). Così Paolo, da Atene, manda Timoteo, “nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo”, perché sostenga la fede di questa comunità provata e, a sua volta, riproponga il messaggio dell’apostolo che, trepidante, conosce i rischi di questa nuova assemblea. Non ci sono timore o gelosia di fronte alle situazioni di impossibilità, a patto che ci siano altri che continuino l’opera iniziata e lo facciano correttamente. E’ un problema di doni (carismi) e di vocazione, non di possesso o di eredità. Timoteo è, e si mostra, all’altezza. Infatti può benissimo sostituire Paolo. Il problema è sempre lo stesso: costituire e rinsaldare un popolo che accolga il Regno di Dio, diventandone testimone ed esempio vivente. La risposta, che ritorna dall’esperienza-missione di Timoteo, è molto incoraggiante: la comunità è salda e coraggiosa. Il testo, allora, ricorda la preghiera di ringraziamento elevata per tutti i suoi cristiani lontani e rinnova il desiderio di reincontrarli, mentre formula auguri e progetti. “Che crescano nell’amore e nella speranza della venuta di Gesù che solo e veramente porta la salvezza”. Il brano della lettera ricorda, quindi, alcuni suggerimenti molto interessanti. “l’amarsi l’un l’altro (v 9), vivere in pace, facendosi un punto d’onore attendere alle proprie cose e lavorare con le proprie mani (v11). Sono suggerimenti di vita quotidiana, comprensibili dalla comunità che accoglie e che, probabilmente, è anche una comunità irrequieta. Essa va richiamate ad uno stile semplice, discreto e operoso anche se monotono.

 

 

Giovanni 8, 31-59

In quel tempo. Il Signore Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio». Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno”. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.

Questo testo, complesso e carico di fede e di lotte interne tra credenti, ha al centro, continuamente, la figura di Abramo, ricordato 8 volte e che, tuttavia, resta sullo sfondo non come il vertice della rivelazione, ma come colui che aspetta una soluzione matura nel suo cuore e quindi una speranza. Questo testo inizia con l’affermazione di Gesù: “Sono la luce del mondo” (8,12) e l’affermazione è fatta nel tempio e nella Festa delle Capanne, quando particolarmente vien richiamata la luce e l’illuminazione del tempio. Gesù non vuole partecipare alla festa delle Capanne, a Gerusalemme, come invece vogliono i suoi parenti (7,3) che pretendono che, finalmente, si faccia pubblicità e si mostri per quello che è. Gesù deve far esplodere, come tutti sperano, il tempo del Messianismo. Ma Egli rifiuta di andarvi, affermando, esplicitamente, la pericolosità dell’andare a Gerusalemme. Ma poi, in incognito, si reca nella città santa e sale direttamente al tempio. Egli parla pubblicamente, affrontando, come un buon maestro, i temi della Scrittura, tra lo stupore della gente che, comunque, si meraviglia della competenza senza che avesse frequentato dei famosi maestri. La discussione si fa subito accesa e intervengono solo alcuni che si ritengono esperti mentre la maggior parte delle persone ascolta. Le parole di Gesù sono subito di fuoco. Giovanni ricorda che Gesù parla presso il “Tesoro” (8,20), il luogo dove si raccolgono i proventi della raccolta del popolo per il tempio. Dagli interventi precedenti e seguenti e dai giudizi che Gesù dà del culto si risente la denuncia di un pesante sfruttamento delle persone, raccolto nel tempio, diventato luogo di commercio e di ricchezza, deformazione del culto e durezza di cuore. Gesù parla, ma a suo rischio e pericolo. Giovanni, in questi due capitoli (7/8), ricorda 6 volte il verbo “uccidere”. E, d’altra parte, il momento è tragico per il peccato della classe dirigente. Perciò nella denuncia Gesù chiaramente accetta di manifestarsi come Messia e come inviato dal Padre. La predicazione non propone “un’attesa, uno stare attenti, un preparatevi”, ma diventa una chiara e drammatica proposta: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (vv31-32) E’ pur vero che qualcuno presta attenzione a Gesù (“quelli che avevano creduto”v 31), ma Gesù li avvia immediatamente sull’itinerario dell’essere discepoli e nella responsabilità di accettare pienamente la sua parola. E aggiunge:”Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Viene toccato un nervo scoperto per il mondo ebraico. Soggetto a Roma, aspetta il messia, ma la liberazione – è convinto- avviene con le armi, non con l’accettare Gesù e il suo messaggio. D’altra parte i discendenti di Abramo hanno sangue reale (Gn 17,16) e non possono essere schiavi. Gesù deve allora inerpicarsi sui difficili sentieri della libertà: essa non viene dalla stirpe, ma viene da Dio. Ed esiste una verifica della libertà. Si prova con il comportamento. Chi è da Dio non è bugiardo né omicida: solo Dio è libero. Così Gesù si oppone alla classe dirigente poiché, nonostante la propria attestazione di fedeltà a Dio, vuole uccidere Gesù poiché teme di perdere privilegi e sicurezze. I gesti e i segni di Gesù mettono troppo in discussione la loro vita e la loro impostazione religiosa. Così, per un verso, Egli garantisce la libertà per chi accetta il suo messaggio (8,31-36), per un altro verso nega che i giudei abbiano come padre Abramo. Essi hanno un padre diverso (8,37-40). L’accusa velata che Gesù pone e che i giudei sospettano di sentirsi dire è la loro dipendenza dall’idolatria, “figli della prostituzione”;. rivendicano la propria fedeltà poiché riconoscono solo il Dio d’Israele. Ma Gesù, passo passo, arriva a dichiarare che il loro Padre è il nemico di Dio, l’omicida, e quindi non vengono da Dio (8,41-47). La risposta (8,48-58) è organizzata in tre invettive. Altro che messia. Egli è folle, indemoniato, bestemmiatore fedifrago. La conclusione è il tentativo di fare giustizia nel tempio, lapidando Gesù. E Gesù fugge e si sottrae. Ma così, dice Giovanni, definitivamente Dio esce dal tempio (8,59).