 IV DOMENICA DI AVVENTO
Ingresso del Messia 07/12/2014
Marco11, 1-11.
Riferimenti : Isaia16, 1-5. - salmo 149 - 1Tessalonicesi. 3, 11 - 4, 2
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Cantate al Signore un canto nuovo; la sua
lode nell'assemblea dei fedeli. Gioisca Israele nel
suo Creatore, esultino nel loro Re i figli di Sion.
Lodino il suo nome con danze, con timpani e cetre gli
cantino inni. Il Signore ama il suo popolo,
incorona gli umili di vittoria. Esultino i fedeli
nella gloria, sorgano lieti dai loro giacigli. |
Isaia16, 1-5. Mandate l’agnello
al signore della regione, da Sela del deserto
al monte della figlia di Sion. Come un
uccello fuggitivo, come una nidiata dispersa
saranno le figlie di Moab ai guadi dell’Arnon.
Dacci un consiglio, prendi una decisione!
Rendi come la notte la tua ombra in pieno
mezzogiorno; nascondi i dispersi, non tradire
i fuggiaschi. Siano tuoi ospiti i dispersi di
Moab; sii loro rifugio di fronte al
devastatore. Quando sarà estinto il tiranno e
finita la devastazione, scomparso il
distruttore della regione, allora sarà
stabilito un trono sulla mansuetudine, vi
siederà con tutta fedeltà, nella tenda di
Davide, un giudice sollecito del diritto e
pronto alla giustizia. I
due capitoli 15 e 16 si occupano del popolo di
Moab che da Israele è disprezzato e con cui si è
sempre sentito in lotta. E’ un popolo che abita
al di là del Mar Morto e, tuttavia, nella
memoria, sia i Moabiti che gli Ammoniti, il
popolo accanto, vengono fatti risalire alla
discendenza di Lot ,nipote di Abramo, in fuga
per allontanarsi dal castigo di Sodoma e quindi
nella solitudine di un uomo anziano e di due
figlie in un paese straniero (gen 19,30ss). Per
l’ossessione di non aver una discendenza, le
due ragazze ottengono in modo immorale di poter
generare nel tempo, senza che il padre,
ubriacato per l’occasione, se ne fosse accorto.
Così, per i Moabiti, nel capitolo
immediatamente precedente (Is15), Isaia parla di
una minaccia pronunciata sul popolo dei
Moabiti, preannunciando tragedie di guerre e
distruzioni. Ma il testo di oggi vuole,
tuttavia, offrire un messaggio di speranza e di
salvezza. Di fronte alle distruzioni che si
stanno verificando contro i Moabiti dal Nord,
essi chiedono aiuto al regno di Giuda. Il
profeta ricorda che, già un tempo, Moab inviava
al re d'Israele 100.000 agnelli e la lana di
100.000 pecore, come segno di sottomissione (2
Re 3,4). Ora il profeta incoraggia questo
popolo a cercare rifugio nel territorio di Giuda
e, nello stesso tempo, si invitano i Moabiti a
riconoscere la sovranità del "Tempio" di
Gerusalemme. Debbono però dichiarare la propria
dipendenza in tempi ridotti. Si parla infatti
dell'attesa di donne in fuga, spaventate, che
aspettano una risposta di accoglienza ai
guadi di Arnon, alle porte del paese degli
ebrei. E si chiede però al sovrano, che
accoglie, di essere un sovrano misericordioso e
di garantire che essi ricevano il dono di
essere considerati "ospiti protetti", mentre il
profeta assicura, guardando il futuro, che
scomparirà il tiranno e si concluderà la
devastazione. Sempre nel futuro il profeta
prevede un sovrano giusto, garantito dalla
parola di Dio nella discendenza di Davide,
"sollecito del diritto e pronto alla giustizia".
La speranza per una prospettiva dei popoli in
pace si rinnova oggi ancor più, poiché guerre,
stragi, sfruttamenti e persecuzioni deformano
il cammino e lo sviluppo della pace. Questa
lettura del giudice misericordioso apre gli
orizzonti verso il Messia, il principe della
pace. Una simile tragedia si svolge
continuamente nella storia, e quindi, ancor
oggi: popoli poveri vengono travolti,
sottomessi e depredati, popoli che fanno valere
il loro potere per mostrare la propria
potenza, popoli sicuri di sconfiggere e di
sottomettere. Ciò avviene a livello politico, a
livello economico, a livello culturale mentre
vengono depredate le materie prime nei paesi
poveri, e insieme vengono obbligati a pagare
tributi spaventosamente alti. E le economie, che
si sviluppano all’insaputa dei popoli poveri,
travolgono, per il bisogno, sempre più alto, di
energia, per la ricerca e lo sfruttamento di
materie prime, per l’imposizione di mano d’opera
sottocosto. Il mondo sviluppato produce
tecnologia e quindi sempre più armi sofisticate,
induce allo sfruttamento e fomenta ribellioni
per poi far utilizzare le proprie armi. Alla
fine, su un territorio dissanguato e
decimato, corroso dagli odi e dalle violenze, si
conquistano risorse e si riducono possibilità
di giustizia. La popolazione che resta sul
territorio deve soggiacere, rassegnata, alla
fame e alla miseria e, nello stesso tempo,
vede emigrare la parte migliore della
popolazione. Anche noi siamo stati popoli
emigranti, alla fine dell’800, dal nostro Sud e
dal nostro Est (il Veneto) verso le Americhe
fino alla prima guerra mondiale e, dopo la
seconda, verso la Francia, i paesi del Nord e
la Germania. E ancora oggi sono circa 100.000
gli italiani che emigrano all’estero, mentre,
da noi, arrivano immigrati da terre di fame e di
violenza. Eppure un articolo, tratto dal
“Corriere della sera” il 23 novembre 2014 di
Gian Antonio Stella, ci ricorda: “Ha ragione
papa Francesco: gli immigrati sono una
ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti
costi-benefici, spiega un dossier della
Fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo
3,9miliardi l’anno. E la crisi, senza i
nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo
milione di aziende, sarebbe ancora più dura.
Ci dice ancora che ci sono in Italia 830 mila
badanti, quasi tutte straniere, che
accudiscono circa un milione di non
autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati
nelle strutture pubbliche. Se dovesse
occuparsene lo Stato, un posto letto,
dall’acquisto del terreno alla costruzione
della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa
150 mila euro. Per un milione di degenti
dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere
(otto persone ogni dieci posti letto) 800
mila addetti per una spesa complessiva annuale
(26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno.
Più spese varie. Con un investimento complessivo
nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi”.
Quando ci si impegna alla solidarietà, al
rispetto delle regole e al valore del dialogo e
della dignità, ci si accorge che tutto,
attorno a noi, diventa più sereno e più
accogliente. La comunità mondiale intravvede
orientamenti e spazi nuovi di intervento, ma non
è ancora capace di trovare delle soluzioni di
difesa delle realtà di popoli oppressi. Si
inventano, in alcuni casi, guerre e
distruzioni, in altri casi si mantengono
silenzio e neutralità, in altri casi gli
interventi umanitari, che pure nell’immediato
sono un soccorso indispensabile, riproducono
all'infinito la debolezza di popoli senza
casa, senza patria, sfrattati e abbandonati,
senza progetti futuri e senza ricerche di
autonomia propria e di proprie risorse.
Orizzonti di speranza dovrebbero portare a tutti
i livelli la vita come valore, come esigente di
diritti, di rispetto e di giustizia. |
1Tessalonicesi. 3, 11 - 4, 2
Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù
guidare il nostro cammino verso di voi! Il Signore vi
faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso
tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere
saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti
a Dio e Padrenostro, alla venuta del Signore nostro Gesù
con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e
supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato
da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così
già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi
conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del
Signore Gesù. Paolo va a Tessalonica verso
il 50 d.C., nel corso del suo 2º viaggio. La città è stata
fondata nel 315 a.C. da un generale di Alessandro Magno. È un
porto situato in fondo al Golfo e collocato sulla via Egnazia
che collega il Mar Egeo con il mare Adriatico. Quando la
Macedonia diventa provincia romana, Tessalonica è scelta come
capitale e perciò diventa un grande centro culturale. Paolo
vi giunge in una città fiorente. Numerosi stranieri, attratti
dagli affari del commercio, si stabiliscono insieme con una
comunità ebraica importante che costruisce anche una propria
sinagoga. Costretti a lasciare Filippi (At 16, 39-40) perché
sono stati insultati, Paolo, Silvano e Timoteo arrivano a
Tessalonica verso l’anno 50 d.C.. Predicano qualche settimana e,
nel frattempo, cercano un lavoro per assicurarsi da vivere.
Non hanno però il tempo per completare la formazione dei
cristiani perché alcuni ebrei li obbligano ad abbandonare
precipitosamente il posto. Paolo arriva ad Atene e invia Timoteo
per avere notizie. Entusiasta dello stile dei credenti ,
Timoteo torna infiammando Paolo che, nel frattempo, si è diretto
a Corinto. Così Paolo, contento e riconoscente di come le
cose si sono sviluppate, scrive la 1ªdelle 2 lettere ai
Tessalonicesi che è, in assoluto, la più antica del Nuovo
Testamento e sente gioioso il senso del ringraziamento per
questa comunità e per la sua fedeltà, nonostante le
diffidenze. Non affronta temi teologici particolari, ma insiste
su richiami etici: l’imitazione dei buoni esempi, la fede, la
speranza, la carità che richiamerà in vari modi. Con le buone
notizie, Paolo si rincuora, garantendo: "Siamo stati amorevoli,
con voi come una madre che ha cura dei propri figli... come
un padre abbiamo esortato ciascuno di voi"(2,7. 11). Gli
resta un grande desiderio di poter incontrare i giovani
cristiani (3,11), e così scrive questa lettera per comunicare
la sua gioia e iniziare a risolvere alcuni problemi di quella
comunità che gli sono stati riferiti. Troviamo così, in
questa lettera, il senso e la missione della vita di una
comunità cristiana, costituita in gran parte, da persone che
provengono dal mondo pagano, fondamentalmente greco
(Tessalonica è l'attuale Salonicco, nella Macedonia). Ci vengono
così anche rivelati i sentimenti fondamentali che devono
reggere una comunità credente. Paolo esprime il senso della
sua preghiera per questa comunità, augurando che possa essere
“in cammino verso la carità (carità come “amore di comunione”
che è la stessa carità di Dio:“agapè”). “Davanti a Dio e
Padre nostro.., saldi alla venuta del Signore nostro Gesù con
tutti i suoi santi… possiate crescere e sovrabbondare
nell'amore fra voi e verso tutti”. ^ Una comunità cresce se
c'è un amore reciproco che è generosità gratuita, a somiglianza
dell’amore di Dio. ^ Questo amore, per quanto è possibile, non
può darsi prospettive di limiti di selezione: ma sia "tra
voi e verso tutti", in una reciproca attenzione. ^“Per rendere
saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità”, in una
comunità, si costituisce un vincolo saldo, mondato da
interessi, ma nella responsabilità personale e gratuita. ^
L'orizzonte e, nello stesso tempo, la motivazione fanno
riferimento " a Dio e Padre nostro e alla venuta del Signore
nostro Gesù con tutti i suoi santi”.^ Questo amore deve poter
provocare esempi di vita cristiana, misurata sullo stile che
Paolo stesso ha portato: "come avete imparato da noi il modo
di comportarvi e di piacere a Dio". ^ La raccomandazione di
Paolo non esibisce tanto una sua superiorità ma, con lo stile
e la tenerezza del padre e della madre, richiama i figli ad
imitarlo perché egli, a sua volta, ha maturato la sapienza di
Gesù. Non va dimenticato che le persone critiche e non
credenti si aspettano dai credenti non tanto atti di culto ma
coerenza di vita e accoglienza verso i deboli.
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Betfage,
il piccolo villeggio tra Betania e Gerusalemme,
sul monte degli
Ulivi, ove Gesù mandò a prendere l'asino e il puledro |
Marco11, 1-11. In quel
tempo. Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso
il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate
nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso,
troverete un
puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e
portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete:
“Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà
qui subito”». Andarono e
trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori
sulla strada, e
lo slegarono. 5Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate
questo
puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono
fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed
egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri
mantelli sulla strada,
altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che
precedevano e
quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che
viene nel
nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre
Davide! Osanna nel più alto dei cieli!». Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio.
E dopo aver guardato ogni cosa attorno,
essendo ormai l’ora tarda, uscì
con i Dodici verso Betània.
Tutti conosciamo
il testo del Vangelo che tratta dell’entrata di Gesù in Gerusalemme
all’inizio della sua settimana di passione. Oggi mi colpiscono soprattutto
gli ultimi versetti del brano proposto: “Ed entrò a Gerusalemme nel
tempio. Dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda,
uscì con i 12 verso Betania. (Marco 11,11).Il cuore di Gerusalemme è il
tempio e Gesù vi si reca immediatamente: quel tempio. fatto
costruire e
abbellire magnificamente da Erode, splendido di marmi, di oro e di pietre
preziose, che spiccava in alto e da lontano come un faro luminoso. Altrove,
nei Vangeli, veniva raccontato che cosa Gesù fa nel tempio. Qui Marco dice
che Gesù, “dopo aver osservato intorno tutte le cose” se ne va e torna a
Betania. Che cosa guarda Gesù? Certo lo splendore del tempio pensando
anche alla sproporzione tra la magnificenza estetica e il significato che
il tempio aveva avuto e dovrebbe avere per il popolo d’Israele. Ma c’è
un’esteriorità che non corrisponde, c’è una mondanità, c’è un
sovvertimento di valori, si respira un’idea idolatrica di Dio, si avverte un
presagio di distruzione, un’atmosfera di morte.
Perciò Gesù, senza dire
niente, se ne torna a Britannia, il luogo dell’amicizia, dell’ospitalità
fraterna, dell’accoglienza nella normale umanità, dove la casa ha i volti
delle persone e gli amici hanno un nome caro, amato: Marta, Maria,
Lazzaro. Infatti il vero incontro con il Signore è là dove si vive con
amicizia, con affetto, con la gratuità di gesti immensi (unzione di Maria)
vissuti nella semplicità di una cena condivisa. Guardarsi intorno e non
lasciarsi affascinare dalla grandiosità e dalla ostentazione di un
potere,
anche se sacro, ma riconoscer e e riaccogliere la presenza di Dio nel profumo
di una amicizia che sa di pane, che sa di casa, dell’umile scambio di
gesti consueti pregnanti di amore.
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