
IV domenica dopo martirio di Giovanni
20 settembre 2015
Giovanni 6, 41-51
Riferimenti : primo libro Re 19, 4-8 - Salmo 33 - Prima Corinzi
11, 23-26 |
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia
bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri
ascoltino e si rallegrino. Guardate a lui e sarete raggianti, i
vostri volti non dovranno arrossire. Questo povero grida e il
Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce. L’angelo
del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li
libera. Gustate e vedete com’è buono il Signore; beato l’uomo
che in lui si rifugia. |
primo libro Re 19, 4-8
In
quei giorni. Elia s’inoltrò nel deserto una
giornata di cammino e andò a sedersi sotto una
ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora
basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io
non sono migliore dei miei padri». Si coricò e
si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un
angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!».
Egli guardò e vide vicino alla sua testa una
focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio
d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si
coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del
Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia,
perché è troppo lungo per te il cammino». Si
alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo
camminò per quaranta giorni e quaranta notti
fino al monte di Dio, l’Oreb.
Elia si è opposto alla idolatria ed ha
affrontato anche il "giudizio di Dio" con una
sfida ai 450 sacerdoti di Baal, il Dio fenicio.
Aveva vinto con il fuoco dal cielo che il
Signore ha inviato ed ha incenerito con
l'offerta anche tutto l'altare di pietra (1 Re.
18, 16b-40a). Ma la successiva vendetta di Elia,
che riteneva di vendicare l'onore di Dio
uccidendo i sacerdoti di Baal, e insieme la
sofferenza e la sottomissione dei suoi gli
allontanò ancora il popolo che, dopo un momento
di esultanza e di alleanza con Elia, era
ritornato ad essere soggetto al re e alla moglie
Gezabel, figlia del re di Tiro (pagana) e
ardente missionaria della sua religione pagana.
Così Elia fuggì intraprendendo un pellegrinaggio
al monte Sinai, alla ricerca del volto di Dio,
come per Mosè, poiché non capiva più il
comportamento di Dio verso di lui e il suo
popolo. Egli voleva scoprire le strategie di
Dio, ma ricevette una esperienza, assolutamente
diversa da come se la sarebbe immaginata. Il
primo significato di questo brano è la ricerca
di Dio e delle sue scelte. Elia era fedele e non
comprendeva. Ma non voleva scoraggiarsi perché
lo alimentavano una fede profonda ed una fiducia
che gli faceva superare la fatica del
disorientamento. Dio non è facile da accostare.
Egli si nasconde e questo provoca scoraggiamento
(v. 3), la tentazione classica del profeta (Gen
21,14-21; Giona 4,3-8; Num 11,15; Ger 15,10-11;
Mt 26,36-46). Eppure Elia ha riportato una
grande vittoria al Carmelo ( 1 Re 18). Ma la
solitudine del dover reggere la fatica di un
popolo infedele lo ridusse alla prospettiva di
abbandonare, di fermarsi e di dormire, stremato
dal buio che aveva davanti a sé. La regina
Gezabel aveva ancora vinto, Elia si ritrovòa
quindi solo, come più tardi Cristo; non gli
rimase che rimettersi a Dio. Ma Dio gli offrì
una segno per trarlo dalla disperazione;. Non
abbandonò il suo eletto, così come non
abbandonerà il suo Cristo (Le 22,43). Un pane e
un'acqua miracolosi (v. 6 ) ricordavano ad Elia
la manna del deserto e l'acqua della roccia ( E
s 16,1-35; 17,1-7). Così, il memoriale della
Pasqua del popolo fu il mezzo più sicuro per
curare lo scoraggiamento. Il Signore suggerì di
misurarsi a Mosé, il mediatore che spesso si
sentiva solo. Ma nutriva un profondo amore al
suo popolo, pur infedele, e una profonda fiducia
in Dio con cui discuteva e si confrontava. Ma il
cammino lo doveva fare tutto. Elia non venne
sollevato su ali di aquila, né dispensato dalla
fatica del camminare su un terreno inospitale.
Ma scoperse che il Signore si fidava di lui e lo
attendeva. Infatti camminerà quaranta giorni (v.
8): il tempo della prova, della conversione,
della vita. L'accostamento fra Elia e Mosé ci
viene ricordato anche nel Vangelo nel momento in
cui Gesù si: svela nella Trasfigurazione per
incoraggiare i discepoli a non disorientarsi di
fronte alla morte di croce di Gesù stesso. Essi
indicano la gratuità nei confronti di Dio e del
suo popolo. Così essi furono chiamati e tutto
quello che facevano era a servizio di un popolo
perché potesse crescere. Essi aiutavano il
Signore a realizzare il sogno di un popolo
santo. ( M t 17,3; Apoc 11,1-13). Finché il
cristiano ha la certezza di possedere la «virtù»
ed è sicuro della sua «verità» in tasca, finché
il sacerdote è sicuro di sé, del suo ruolo e
della sua influenza, c'è ancora posto per Dio?
Queste sicurezze e queste certezze sono troppo
umane per essere segno di Dio. Quando invece
tutto ciò crolla improvvisamente - e ogni vita
conosce questo smarrimento -, quando le virtù
che si credeva di possedere diventano, ad un
tratto, peccati e viltà, quando le verità
tranquillanti e i luoghi comuni e le regole di
società e i diritti di casta sono ad un tratto
messe in discussione, Dio può finalmente agire
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Prima Corinzi 11, 23-26
Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi
ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva
tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e
disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in
memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche
il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio
sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di
me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al
calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
Siamo attorno all'anno 56 d.C. e Paolo vuole impegnare
l'assemblea a consolidarsi, partecipando al pasto sacro comune,
con la prospettiva, non tanto di catturare Gesù e tenerselo
vicino, quanto per alimentare sé e gli altri fratelli e sorelle
nelle loro vocazione e nelle sue scelte. Di Corinto, una
comunità che Paolo conosce bene perché vi ha abitato molti mesi,
si ricordano le divisioni e gli scandali presenti nella
comunità. L'apostolo vuole mettere ordine, soprattutto vuole
intervenire nelle assemblee comunitarie quando ci si ritrova, in
particolare, per l'Eucaristia. Nei capitoli che vanno dall'11
al 14, per inquadrare il testo di oggi, Paolo prende in
considerazione alcune deviazioni presenti nella Comunità
(11,2-14,40): il comportamento delle donne in assemblea
(11,2-16), il modo di celebrare la Cena del Signore (11,17-34),
il retto uso dei doni dello Spirito (carismi) nella Comunità
(cc.12-14). Qui, dove si parla della "Cena del Signore", ci sono
elementi importanti che hanno trasformato la cena Pasquale di
condivisione in cena dove si celebrano la croce e il sacrificio
di Gesù. Si parla, in particolare, del fare memoria.. Fare
memoria non è tanto un ricordare ma è rendere presente la
realtà, l'evento che si vuole ricordare. Gesù stesso, celebrando
la Pasqua ebraica, ha fatto memoria del dono della liberazione
ed ha anticipato nel gesto, che compie nella cena, il dono di
amore al Padre, mediante la croce. La Comunità di Corinto è
composta, nella quasi totalità, da gente povera, braccianti,
scaricatori del porto, schiavi. I ricchi sono pochi, ma si fanno
notare per la loro supponenza. Quando si trovano per lo spezzare
del pane, già nel primo pomeriggio si abbandonano a gozzoviglie
mentre i fratelli sono al lavoro. Quando, sfiniti dal lavoro,
questi ultimi si presentano per la celebrazione, sono accolti
con disprezzo. Paolo, allora, è preoccupato di chiarire il
significato dello spezzare il pane. "Non avete forse le vostre
case per mangiare e per bere?" (che significa: "Se avete voglia
di mangiare e bere, state a casa vostra" (11,22). Il trovarsi
allo spezzare il pane ci offre la possibilità di rendere
presente e di celebrare il dono di Gesù al Padre che si esprime
pienamente nella morte sul Calvario per una profonda comunione
con i fratelli. Ma il celebrare ci invita non solo al gesto
liturgico ma, attraverso quello, a ripetere ciò che il gesto
significa e di cui Gesù è il modello. Proprio per questa
comunione S. Paolo si preoccupa: i credenti di Corinto hanno
trasformato la cena del Signore in un segno menzognero che non
può essere accettato. Non sono sinceri perché prendono parte ad
un corpo che viene donato e al sangue che viene sparso per gli
altri senza donarsi, a loro volta, per i fratelli. Paolo vuol
far capire che l'Eucaristia, mentre offre la presenza unificante
di Gesù che ama e muore per amore, simboleggia e realizza
l'unione di tutti i membri nell'unico corpo di Cristo che è la
Chiesa. Spezzare il pane è un gesto di comunione e di
disponibilità a donare se stessi come ha fatto Gesù. Se ci
sono altri criteri, questa Comunità "mangia e beve la propria
condanna" (11,28-29) perché la celebrazione diventa menzogna.
Il bere allo stesso calice, poi, nella cultura semitica,
significa essere disponibili a condividere lo stesso destino
fino alla morte. Quello che è difficile capire è che la
liturgia corre sempre il rischio di diventare solo rito, pratica
a cui si partecipa per dovere senza rendersi conto che, se si è
in comunione con Gesù, ovviamente, si imposta seriamente una
comunione con i fratelli. Altrimenti, senza questa coscienza e
questa fede, resta solo un gesto formale che non alimenta e non
salva nessuno. La cena del Signore è così messa al centro,
fonte e culmine dell'esistere della Chiesa, dono grande per una
comunità che resta nell'attesa, dono che significa impegno di
responsabilità nella storia, dono per ricordare a vivere l'amore
totale di Gesù.
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Resti della sinagoga di Cafarnao, risalente al IV-V secolo,
costruita probabilmente
sul sito di
una precedente sinagoga, nella quale, secondo gli evangelisti,
predicò Gesù |
Giovanni
6, 41-51
In quel tempo. I Giudei si misero a mormorare contro il
Signore Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E
dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non
conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal
cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a
me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò
nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da
Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non
perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il
Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io
sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e
sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non
muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane
vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
I giudei si misero a mormorare perché aveva detto: io sono il pane
disceso dal cielo, il pane della vita. Dio è disceso dal cielo, il mondo ne è
gravido. È dentro di te, intimo a te come un amante, disciolto in te come un
pane dentro la bocca. Il perno della storia è la discesa di Dio, discesa che
continua per mille strade. Dio, il vicino-lontano, "Colui-che-viene" è in
cammino verso ciascuno: se lo accogli, ti abita il cuore, la mente, le
parole, e li nutre di cielo. C'è un segreto gioioso nascosto nel mondo e Dio
te lo svela: il cibo che sazia la tua fame di vita e di felicità esiste. Non
sprecare parole a discutere di Dio, puoi fare di meglio: tuffati nel suo
mistero. Cerca pane vivente per la tua fame. Pane vivente che cambia la
qualità della tua vita, le dà un colore divino. Non accontentarti di altri
bocconi, tu sei figlio di Dio, figlio di Re. Prepàrati allo stupore e alla
gioia dell'inedito: un rapporto d'amore al centro del tuo essere e nel cuore
del mondo. Il brano del Vangelo di oggi è riempito dal verbo mangiare. Un
gesto così semplice e quotidiano, così vitale, pieno di significati, ma il
primo di tutti è che mangiare o no è questione di vita o di morte. Il Pane
che discende dal cielo è Dio che si pone come una questione vitale per
l'uomo: davanti a te stanno la vita e la morte. Scegli dunque la vita (Deut
30,19). Ciò che mangi ti fa vivere e tu sei chiamato a vivere di Dio. Non
solo a diventare più buono, ma a nutrirti di un Dio che ti trasforma
nell'intimo dolcemente e tenacemente. E mentre ti trasforma in lui, ti
umanizza: più Dio in te equivale a più io. I Padri Orientali la chiamano
"divinizzazione", "theosis"; e Dante la trascrive con il potente verbo
"indiarsi": diventare figli, della stessa sostanza del Padre. Assimilare la
vita di Gesù non significa solo Eucaristia, non si riduce a un rito, ma
comporta una liturgia continua, un discendere instancabile, a ogni respiro,
di Cristo in me. Vuol dire: sognare i suoi sogni, respirare l'aria limpida e
fresca del Vangelo, muoversi nel mare d'amore che ci avvolge e ci nutre: "in
Lui siamo, ci muoviamo e respiriamo" (Atti 17,28). Chiediti: di cosa nutro
anima e pensieri? Sto mangiando generosità, bellezza, profondità? Oppure mi
nutro di egoismo, intolleranza, miopia dello spirito, insensatezza del
vivere, paure? Se ci nutriamo di Cristo, egli ci abita, la sua parola opera
in noi (1Ts 2,13), dà forma al pensare, al sentire, all'amare. Se accogliamo
pensieri degradati, questi ci fanno come loro. Se accogliamo pensieri di
Vangelo e di bellezza, ci renderanno uomini e donne della bellezza e della
tenerezza, le due sole forze per cui questo mondo sarà salvato.
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