
II Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore
12 settembre 2021
Gv 5, 37-47
Riferimento : Sal 79 -Is 63, 7-17 - Eb 3, 1-6 |
Fa’ splendere il tuo volto, Signore, e noi
saremo salvi. Tu, pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi
Giuseppe come un gregge. Seduto sui cherubini, risplendi davanti
a Èfraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni
a salvarci |
Is 63, 7-17
In quei giorni. Isaia parlò, dicendo: «Voglio
ricordare i benefici del Signore, le glorie del
Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è
grande in bontà per la casa d’Israele. Egli ci
trattò secondo la sua misericordia, secondo la
grandezza della sua grazia. Disse: “Certo, essi
sono il mio popolo, figli che non deluderanno”,
e fu per loro un salvatore in tutte le loro
tribolazioni. Non un inviato né un angelo, ma
egli stesso li ha salvati; con amore e
compassione li ha riscattati, li ha sollevati e
portati su di sé, tutti i giorni del passato. Ma
essi si ribellarono e contristarono il suo santo
spirito. Egli perciò divenne loro nemico e mosse
loro guerra. Allora si ricordarono dei giorni
antichi, di Mosè suo servo. Dov’è colui che lo
fece salire dal mare con il pastore del suo
gregge? Dov’è colui che gli pose nell’intimo il
suo santo spirito, colui che fece camminare alla
destra di Mosè il suo braccio glorioso, che
divise le acque davanti a loro acquistandosi un
nome eterno, colui che li fece avanzare tra i
flutti come un cavallo nella steppa? Non
inciamparono, come armento che scende per la
valle: lo spirito del Signore li guidava al
riposo. Così tu conducesti il tuo popolo, per
acquistarti un nome glorioso. Guarda dal cielo e
osserva dalla tua dimora santa e gloriosa. Dove
sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito
delle tue viscere e la tua misericordia? Non
forzarti all’insensibilità, perché tu sei nostro
padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele
non si ricorda di noi. Tu, Signore, sei nostro
padre, da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle
tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così
che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi
servi, per amore delle tribù, tua eredità».
Isaia 63, 7-17 Ciò che abbiamo
letto è parte di una bellissima preghiera di
Israele, una delle più commoventi della
Scrittura, (63,7-64,11) che nasce dalla
esperienza dell'esilio a Babilonia. Siamo alla
fine del secolo VI, e davanti agli occhi
resistono ancora vivissimi i ricordi della
distruzione di Gerusalemme (586 a.C.), le urla
delle donne terrorizzate che fuggono con i loro
figli, le stragi per le strade e le fiamme che
avvolgono i palazzi ed il tempio L'inizio
della preghiera è come una confidenza, un
pensiero di speranza di Dio stesso, che si fida
di questo popolo che ha aiutato in ogni modo.
"Senz'altro - pensa il Signore - questo popolo
con la sua intelligenza e la sua sensibilità
saprà riconoscere la bontà e l'opera svolta per
loro. Certo- disse il Signore- essi sono il mio
popolo e i figli che non deluderanno" (v 8).
Il profeta garantisce che questi sono i pensieri
di Dio e lo fa a nome di Dio, mentre ripensa ai
significati della storia del popolo. Dio stesso
si è fatto carico della salvezza, non ha mandato
un angelo o un messaggero, ma è stato Lui il
Salvatore: "Non un inviato né un angelo, ma egli
stesso li ha salvati; con amore e compassione li
ha riscattati, li ha sollevati e portati su di
sé, tutti i giorni del passato" (63,9). Ma
proprio questo Dio amorevole si sente tradito.
Così la riflessione teologica, propria del Primo
Testamento, ritraduce la sventura successiva del
popolo d'Israele come conclusione della
scellerata decisione di lacerare il patto di
Alleanza da parte dello stesso popolo. Ma, in
tal modo, il popolo di Dio si è ritrovato solo,
in un mondo di violenza e di sopraffazione.
Così l'itinerario del pentimento deve
ricominciare dalle origini, riandare al deserto
e a Mosè che si fece umile mediatore e quindi
ubbidiente testimone delle promesse di Dio (v
16).. C'è una sintesi interessantissima che
raccoglie in 5 frasi l'opera discreta e profonda
di Dio ( " Dov'è colui che? Cinque come i libri
della Legge: riassunto della sapienza e della
storia; vv 11-13).
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Eb 3, 1-6 Fratelli santi,
voi che siete partecipi di una vocazione celeste, prestate
attenzione a Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che
noi professiamo, il quale è degno di fede per colui che l’ha
costituito tale, come lo fu anche Mosè in tutta la sua casa. Ma,
in confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di una gloria
tanto maggiore quanto l’onore del costruttore della casa supera
quello della casa stessa. Ogni casa infatti viene costruita da
qualcuno; ma colui che ha costruito tutto è Dio. In verità Mosè
fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore, per dare
testimonianza di ciò che doveva essere annunciato più tardi.
Cristo, invece, lo fu come figlio, posto sopra la sua casa. E la
sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di
cui ci vantiamo. Ebrei. 3, 1-6 La lettera è
indirizzata soprattutto ad una comunità di Giudei cristiani. E'
piuttosto difficile, nella prima generazione della Chiesa,
convincere i Giudei che diventano Cristiani di lasciare
completamente molta parte della loro vecchia religione, da
sempre rispettata, per accettare quella nuova. Alcuni erano
propensi a ritornare al giudaismo dopo aver accettato la fede
cristiana. Gli argomenti principali sono la superiorità di
Cristo come sacerdote su Aronne, e la superiorità del sacrificio
di se stesso sulla legge. Tutto questo dimostra, infatti, non
solo la superiorità di Cristo, ma impegna anche che il
sacerdozio di Aronne e i sacrifici della legge non debbono
essere più osservati. Dimostra anche che tutti i riti della
legge che dipendono dal sacerdozio di Aronne e dai sacrifici a
questo collegati sono passati con essi. Gesù è chiamato
"apostolo e sommo sacerdote". Normalmente l'essere apostoli è
dei discepoli inviati da Gesù, ma qui Gesù è il grande apostolo,
cioè «inviato» da Dio agli uomini (cf.Gv 3,17+.34;5,36;9,7;Rm
1,1+;8,3;Gal 4,4) e sommo sacerdote, che rappresenta gli uomini
presso Dio (cf.2,17;4,14+;5,5.10;6,20;7,26;8,1;9,11;10,21).
Il testo di oggi è all'inizio della sezione che presenta Gesù:
"Sommo sacerdote, degno di fede e misericordioso" (3,1-5,10). Il
termine di paragone è Mosè che ha condotto il popolo verso la
terra promessa. Sia Gesù che Mosè sono stati fedeli al Padre e
tutti e due hanno dato prova di tale adesione nella "casa di
Dio". Infatti Mosé e Gesù hanno operato nella "casa" (che è il
popolo d'Israele). Ma Mosé ha avuto da Dio un incarico come
servo mentre è membro del popolo. Gesù, invece, Figlio e
Messia (Cristo), non partecipa alla costruzione, ma Lui stesso è
costruttore di una propria casa, "non costruita da mano d'uomo"
(9,11). Esistiamo allora come popolo nuovo, assolutamente
unico poiché poggia sulla fede in Gesù. E siamo un popolo nuovo
non per etichetta o per riferimento culturale, tradizione od
abitudini. "E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e
la speranza di cui ci vantiamo" (v 6). Nelle discussioni,
confronti, sviluppi culturali, facilmente, rivendichiamo come
cristiani diritti e appartenenze per tradizioni, sacramenti
ricevuti, abitudini, collocazioni geografiche. Le consuetudini
diventano facilmente abito formale, costumi e pretese di
appartenenza.
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Gv 5, 37-47 In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Anche il Padre,
che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai
ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non
rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate
le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che
danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita. Io
non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di
Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un
altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi
che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene
dall’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è
già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti
credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se
non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
Giovanni 5, 37-47 Tra i sette segni che Giovanni sviluppa, ritroviamo la
guarigione e quindi la vita, restituite al paralitico alla piscina di
Bethesda (5,1-18). La malattia che soffre da 38 anni lo qualifica come una
persona senza speranza (è interessante il numero 38 in rapporto al
Deuteronomio 2,14 dove si ricorda che gli ebrei, usciti dall'Egitto e che
hanno soggiornato nel deserto per 38 anni, non potranno entrare nella terra
promessa, ma moriranno prima). Sorge una durissima polemica, all'inizio,
tra i giudei e l'uomo guarito, che secondo l'invito di Gesù, torna a casa,
portandosi il suo giaciglio. Ma è giorno di riposo e quindi porta un peso:
viene violato il comando di Dio, il primo comando della Legge che vale quanto
la Legge stessa. Poi la discussione, accesissima e pesante, si sviluppa
con Gesù (5,19-47). Oggi leggiamo solo un tratto, in un quadro di drammatiche
accuse e di coraggiose testimonianze, che oltrepassano di molto il senso
della nostra comprensione. A noi sembra banale l'accusa eppure coinvolge
tutta la religiosità ebraica del suo tempo.. Tutto il testo adopera un
linguaggio adatto ad un tribunale. Qui si tratta veramente di un giudizio:
verificare davanti a Dio il valore della legge e il valore di Gesù, per
esaminare se è colpevole o innocente. Dal valore delle prove vengono la
soluzione e quindi la legittimità dell'operato di Gesù. Per Gesù i
testimoni sono: le sue opere, il Padre e le Scritture (vv 36-47); per i
giudei i testimoni sono Mosé e i suoi scritti. Gesù potrebbe anche portare la
testimonianza di Giovanni Battista, Ma è una testimonianza umana, data
all'inizio della sua predicazione e che non si può elevare al livello della
parola di Mosè, tanto più che Giovanni ha sempre negato di essere Elia, o il
profeta o il Messia (vv.33-36). Sono le opere che lo garantiscono: le
guarigioni tra i malati, gli storpi, i moribondi: le vere opere di Dio, opere
della misericordia e della liberazione. I giudei non sanno fare un
collegamento tra la sua opera che soccorre i poveri e guarisce i malati e la
volontà di Dio che desidera la liberazione di ogni persona. In tal modo essi-
dice Gesù - non credono nel Padre. Il Padre invece riconosce le opere di Gesù
perché sono secondo la Sua volontà e quindi riconosce Gesù stesso. "E se
la legge del sabato obbliga a non intervenire, abbandona il malato a non
rispettare il sabato perché malato. Ma se io opero una guarigione, rendo un
figlio di Dio capace di libertà e quindi capace di rispettare anche il
sabato, oltre che tutta la legge". Questa è la riflessione suggerita. Le
Scritture sono fonte di vita. I Giudei le scrutano per "avere in essa la vita
eterna" (v 39). Ma la vita non la possono trovare poiché "Voi non volete
venire a me per avere la vita" (v 40). Gesù rivendica un rapporto unico
con il Padre e non cerca sostegno e onore dagli uomini (v 41). "Venire nel
nome del Padre" significa essere il vero profeta. Proprio Mosé, nel
Deuteronomio, ricorda che ci sarà il vero profeta: "Il Signore tuo Dio
susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A
lui darete ascolto" (vv 18,15. 18). Invece "venire nel proprio nome" è del
falso profeta (v 18,20) e la sua parola è inefficace poiché non sa compiere
le opere di Dio (v 18,22). |