Seconda Domenica dopo il martirio del precursore
12 settembre 2010
Matteo 21, 28-32
Riferimenti: Isaia 5, 1-7 - Salmo 79 - Galati 2, 15-20
| O Dio, nella tua eredità sono entrate le nazioni, hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto in macerie Gerusalemme. Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvaggi. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e nessuno seppelliva. Siamo divenuti l'obbrobrio dei nostri vicini, scherno e ludibrio di chi ci sta intorno. Fino a quando, Signore, sarai adirato: per sempre? Arderà come fuoco la tua gelosia? Riversa il tuo sdegno sui popoli che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome, perché hanno divorato Giacobbe, hanno devastato la sua dimora. Non imputare a noi le colpe dei nostri padri, presto ci venga incontro la tua misericordia, poiché siamo troppo infelici. Aiutaci, Dio, nostra salvezza, per la gloria del tuo nome, salvaci e perdona i nostri peccati per amore del tuo nome. |
Isaia 5, 1-7
Così dice il Signore Dio: “Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.
Il profeta canta l'amore di Dio per il suo popolo nella storia del mondo e racconta la tenerezza grande, delicata, generosa e tradita di Dio. E' un profeta colui che alza la voce per l'amico intimo ("il mio diletto" v. 1), il padrone-sposo, il Dio di Israele. Viene usata un'immagine particolarmente preziosa per il mondo agricolo dell’ebreo: la vigna è il simbolo della pace, dell'unione familiare, della gioia, della festa. Dalla vigna è tratta l’uva coltivata con premura e accarezzata, si può dire. Si spreme il vino dell'allegrezza, la giocondità del benessere e della pace, lo splendore di un amore ricco di dolcezza. Non è un caso che il rapporto fra il contadino e la vigna è espresso in termini di amore come quello dello sposo per la sposa, di sollecitudine come attenzione, offerta gratuita dei propri doni. Il profeta permette al Signore di sfogare la divina nostalgia e sofferenza per la sposa che lo ha abbandonato. - La prima parte descrive l'opera generosa e fedele di un contadino per la sua vigna che assomiglia all'opera attenta e paziente di Dio. Il contadino dissoda la terra, la ripulisce dai sassi, sceglie le piantine, costruisce la torre per sorvegliare e tenere lontano i ladri nel tempo della vendemmia (la torre esprime probabilmente la dinastia di Davide), installa il tino per avere subito il mosto (vv. 1-2 richiamano cinque azioni. Potrebbero ricordare i 5 libri della Legge o Torà). - Il padrone, a questo punto, interviene in prima persona. Non è solo un colono, ma è il Signore che parla attraverso il profeta. C'è una "lite". - Viene spiegata l’immagine con l’identificazione tra il popolo d’Israele e il Signore. Con un gioco di parole viene ricordato, in ebraico, che “Egli aspettava diritto (mishpat) ed ecco delitto (mishpach), attendeva giustizia {tsedaqa) ed ecco lamento (se'aqa)". L'amore di Dio che voleva la pace e l'armonia del suo popolo desiderava la fedeltà all'alleanza, la giustizia sociale, l'aiuto al povero, all'orfano e alla vedova. Si è trovato invece ad ascoltare le grida di oppressi e di sfruttati, menzogne nei tribunali, versamento di sangue, una religione fatta di processioni,pellegrinaggi al tempio e riti cui non corrispondeva la conversione del cuore. - La conclusione drammatica che si prospetta è la distruzione del popolo nella morte, a causa di questa dispersione sul piano etico-sociale. La rottura dell'Alleanza non solamente porta disordine nel contesto, ma diventa la causa di distruzione e di catastrofi. Quando l'uomo si disorienta, si sgretola tutto il suo mondo. Non è Dio che provoca danni, ma sono le scelte malvagie che impoveriscono e abbattono l'equilibrio, la gioia del cuore e della vita. |
Galati 2, 15-20
Fratelli, Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, Cristo è forse ministro del peccato? Impossibile! Infatti se torno a costruire quello che ho distrutto, mi denuncio come trasgressore. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
La lettera è sicuramente di Paolo, scritta attorno al 56/57 e indirizzata alle comunità cristiane della Galazia (1,2), regione dell'Asia minore, abitata dai Gàlati, situata a nord-est rispetto alla Frigia e alla Licaonia (siamo nell’attuale Turchia). Nella Frigia e nella Licaonia Paolo aveva annunciato il Vangelo già prima dell'assemblea di Gerusalemme (49/50 circa); invece, nella Galazia propriamente detta, l'aveva annunciato dopo quell'assemblea (At 16,6). Si tratta di ebreo-cristiani che ritornano a vincolarsi alle prescrizioni ebraiche reclamizzate da cristiani convertiti dall’ebraismo e che continuavano a mantenere le scelte precedenti. Sono alcuni, forse farisei convertiti, che si erano introdotti nelle comunità cristiane di Galazia, fondate dall'apostolo, e imponevano di nuovo la circoncisione e l'osservanza della legge mosaica e delle tradizioni giudaiche. Così, dopo aver conosciuto la libertà del Vangelo, le chiese della Galazia stanno ritornando alla schiavitù della legge mosaica (1,6-10; 3,1-5). Così Paolo, in seguito alle notizie sconcertanti che gli sono pervenute, scrive questa lettera ai Gàlati. Egli insorge fortemente contro queste deformazioni del messaggio di Gesù. Parla, nel suo scritto, della missione avuta da Dio, dei suoi rapporti con gli apostoli di Gerusalemme, e ripropone, con grande intensità, i temi centrali del Vangelo e l'assoluta superiorità della fede cristiana sull'antica legge. È come oggi: molti cristiani credono che il paradiso si guadagni attraverso le buone opere, valutate secondo i propri criteri, e ci si dimentica di riprendere sul serio le parole di Gesù. Si ripete il problema di queste comunità che avevano maturato il superamento della legge ebraica perché Cristo li aveva liberati, ma poi, per influenza e l'esempio di altri, ritenuti più esperti e più saggi, si è tornati a pensare al valore della legge ebraica, e ci si è preoccupati di osservarla mentre, dice Paolo, Gesù ci ha liberati. La legge non salva. La legge è solo un giudice severo che denuncia le inadempienze. Questa è stata l'esperienza stessa di Paolo. Ed egli veramente ha scoperto che solo l'incontro con Gesù e con la sua grazia lo ha profondamente liberato. Paolo ricorda che, come lui, tutti coloro che credono in Gesù vivono l'esperienza profonda della presenza di Gesù in tutta la propria vita. |
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Matteo 21, 28-32
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.
Gesù fa una verifica sui messaggi che vengono accolti e sui profeti che vengono inviati dal Signore. La parabola richiama uno dei grandi amori e ricchezze di un contadino d’Israele: l’amore e la dedizione per la vigna che è il capolavoro delle sue competenze e del suo successo. E’ anche segno di benessere e di pace. “Invitare il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico” era il sogno coltivato da ogni Israelita (Zac 3,10). E’ una delle immagini più alte, in poesia, dell’amore e della premura di Dio verso il suo popolo (Is 5,1-7 prima lettura). Anche Gesù si richiama spesso alla vigna, fino a dire che “Egli è la vera vite” (Gv 15,1-8). In scena ci sono un Padre e due figli, e se è comprensibile che il padre rappresenti Dio, lo è molto meno l’identificazione dei due figli. Per Israele, c’è un solo figlio di Dio “chiamato dall’Egitto” (Osea 11,1) e i giudei sono i “figli del Dio altissimo” (Ester testo greco 8,12q). Ma la provocazione si allarga. Il figlio maggiore è ossequiente, accetta. Tuttavia, probabilmente, non è d’accordo con il progetto del Padre. Perciò a lui bastano le parole. Ma queste non bastano al Padre. Lo dice Gesù stesso: “Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt7,21). Nel mondo religioso, lamenta Gesù, esiste molto formalismo per cui, espressamente, non si accetta di dichiararsi irrispettosi verso Dio, di rifiutarlo, di rinnegarlo. Noi diciamo che il Signore è sempre al vertice dei nostri pensieri. Ma poi avvengono segni e fatti strani, imprevedibili, in cui percepiamo che la voce di Dio si manifesta attraverso messaggi nuovi, inusitati e però sufficientemente chiari. Ma si scoprono scomodi e quindi si resta al “si” formale. Si è rimasti con una religiosità legata alla pelle, senza verifiche, senza riscontri e chiarificazioni. Era la religiosità del tempio, delle grandi liturgie, non la religiosità dei frutti (Mt 21,18-22). Gesù parla di Giovanni Battista, seguito dai peccatori (vengono ricordate, allo stesso livello, le categorie ritenute infedeli di uomini e donne nel mondo ebraico: “i pubblicani e le prostitute”). Sono i più lontani, a cui, quando Matteo scrive, circa 50 anni dopo, si sono aggiunti i pagani convertiti che, nella Comunità cristiana, rappresentano la maggioranza. Il problema dell’ubbidire alla volontà del Signore, scoprendo nella storia, “il diritto e la giustizia” (Is5,7), ci porta alle infinite verifiche a cui ci invitano i vescovi italiani nel “messaggio per la salvaguardia del creato”. “Si tratta di un impegno di vasta portata che tocca le grandi scelte politiche e gli orientamenti macroeconomici, e che comporta anche una radicale dimensione morale”. Ci rendiamo conto che ci vorrebbe una solidarietà diversa, meno legata ai soldi e più alla competenza, al lavoro comune, all’istruzione, alla sanità. E, nello stesso tempo, andrebbero ridimensionati i nostri consumi per riconoscere esigenze e diritti di altri. Questo suppone anche un parlare, un’influenza politica e sociale sulle autorità costituite, un rivedere i programmi ed i progetti. “Ogni soggetto è invitato a farsi operatore di pace nella responsabilità per il creato, operando con coerenza negli ambiti che gli sono propri”.
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