
Penultima DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
detta “
della divina clemenza”
3 febbraio 2013
Marco 2, 13-17
Riferimenti :
Daniele 9, 15-191 - Salmo 106 -
Timoteo 1, 12-17
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Celebrate il Signore, perché è buono,
perché eterna è la sua misericordia. Chi può narrare i prodigi
del Signore, far risuonare tutta la sua lode? Beati coloro che
agiscono con giustizia e praticano il diritto in ogni tempo.
Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo, visitaci
con la tua salvezza, perché vediamo la felicità dei tuoi eletti,
godiamo della gioia del tuo popolo, ci gloriamo con la tua
eredità. Abbiamo peccato come i nostri padri, abbiamo fatto il
male, siamo stati empi. |
Daniele 9, 15-19
In quei
giorni. Daniele pregò il Signore
dicendo: ”Signore, nostro Dio, che hai
fatto uscire il tuo popolo dall’Egitto con
mano forte e ti sei fatto un nome qual è
oggi, noi abbiamo peccato, abbiamo agito
da empi. Signore, secondo la tua
giustizia, si plachi la tua ira e il tuo sdegno
verso Gerusalemme, tua città, tuo monte
santo, poiché per i nostri peccati e per
l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il
tuo popolo sono oggetto di vituperio presso
tutti i nostri vicini.
Ora ascolta, nostro Dio, la preghiera del
tuo servo e le sue suppliche e per amor tuo,
o Signore, fa’ risplendere il tuo volto sopra
il tuo santuario, che è devastato. Porgi
l’orecchio, mio Dio, e ascolta: apri gli
occhi e guarda le nostre distruzioni e la
città sulla quale è stato invocato il tuo
nome! Noi presentiamo le nostre suppliche
davanti a te, confidando non sulla nostra
giustizia, ma sulla tua grande
misericordia.
Signore, ascolta! Signore, perdona!
Signore, guarda e agisci senza indugio, per
amore di te stesso, mio Dio, poiché il tuo
nome è stato invocato sulla tua città e sul
tuo popolo”.
Il libro di Daniele costituisce un’opera coraggiosa e
generosa poiché viene composta in drammatici
momenti di persecuzione e di timore. Il libro di Daniele è
stato scritto attorno al secolo II a.C., nel
periodo in cui prende il potere in Siria Antioco IV Epifane:
anno 175 a.C. Preoccupato della vastità
del suo regno e delle molteplici culture che rendono
difficile il governo, il re decide di uniformare
tutti i popoli sottomessi nella cultura e nella legislazione
ellenista, pretendendo così che debbano
rinunciare ai loro dei o almeno introducano nel loro panteon
anche gli dei importati da Antioco.
Molti dei popoli non hanno problemi e questo rende più sereno
il nuovo dominio. Ma gli ebrei
vedono in tutto questo una bestemmia ed un affronto e perciò
si ribellano in uno scontro, impari
eppure violentissimo e con alterne vicende. Antioco, per tre
anni e mezzo, tenta di abbattere la
resistenza con le armi. Il racconto delle lotte partigiane è
raccolto nei libri dei Maccabei che ci
danno un resoconto di questa lotta durissima. Ma mentre tale
racconto della lotta dei fratelli
Maccabei ricorda fatti ormai avvenuti nel passato, e quindi
vi si può ritornare senza pericolo, il
libro di Daniele è contemporaneo alle persecuzioni del II
secolo. Così, per non tradirsi, l’autore
colloca gli avvenimenti almeno tre secoli prima, in
Babilonia, al tempo del re Nabucodonosor. In
tal modo i fatti raccontati acquistano il significato
compiuto di lotta, ma anche di soluzione e di
pace poiché il popolo, alla fine, sarà liberato e chi vorrà
potrà tornare. In realtà i fatti antichi vanno
riletti nel crogiuolo della fatica e della persecuzione
perdurante.
Il profeta chiede perdono e, in una prima parte, fa appello
alla scelta di elezione che il Signore ha
fatto per questo popolo, proteggendolo e liberandolo. In tal
modo Dio stesso ha dimostrato la mano
forte e il valore della sua potenza con la grandezza del suo
nome che si è perpetuato fino al tempo
del suo popolo sconfitto.” Non ci è possibile accampare
diritti o pretese poiché riconosciamo di
avere sbagliato e riconosciamo che quello che è avvenuto è
stato a causa della nostra infedeltà”.
Questo autore assomma l’infedeltà del popolo: quello del
tempo di Babilonia e quello che si sta
svolgendo nel tempo dei nuovi governanti.
La preghiera si fa, quindi, sempre più accorata e coraggiosa.
Si risente il richiamo de: “Ascolta,
Dio nostro” che corrisponde al richiamo corrispondente e
reciproco di Dio: “Ascolta Israele”. Non
ci sono meriti e non ci sono diritti. Il profeta ammette:
“Quello di cui ci si può fidare è la
misericordia di Dio”. La supplica è per Gerusalemme che è la
casa di Dio, scelta da Lui come
dimora nel popolo. “Piega il tuo orecchio e ascolta, apri i
tuoi occhi e guarda”. Chi prega assomma
i sentimenti di tutti gli oranti. “Non ci permettiamo di
portare davanti ai tuoi occhi le nostre opere
giuste. Non sono all’altezza e non possiamo fidarci. Ma ci
fidiamo della tua misericordia”.
Il v.19 elenca 5 imperativi che sono altrettanti suppliche.
Il numero cinque richiama la legge che, a
questo punto, non può salvare questo popolo. Solo la
misericordia di Dio può essere capace di
novità e di pace.
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1 Timoteo 1, 12-17
Carissimo, Rendo grazie a colui che mi ha reso
forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché
mi ha giudicato degno di fiducia mettendo
al suo servizio me, che prima ero un
bestemmiatore, un persecutore e un
violento. Ma mi è stata usata misericordia,
perché agivo per ignoranza, lontano dalla
fede, e così la grazia del Signore nostro
ha sovrabbondato insieme alla fede e alla
carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di
essere accolta da tutti: Cristo Gesù è
venuto nel mondo per salvare i peccatori, il
primo dei quali sono io. Ma appunto per
questo ho ottenuto misericordia, perché
Cristo Gesù ha voluto in me, per primo,
dimostrare tutta quanta la sua
magnanimità, e io fossi di esempio a quelli
che avrebbero creduto in lui per avere la
vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e
unico Dio, onore e gloria nei secoli dei
secoli. Amen.
Questa lettera ha come destinatario non tanto una comunità
quanto una persona, Timoteo,
discepolo da molto, grande collaboratore di Paolo che, poi, è
stato posto a capo della Chiesa di
Efeso, mentre Tito, altro destinatario di una delle tre
“lettere pastorali”, è a capo della Comunità
nell'isola di Creta. Le tre lettere (due a Timoteo e una a
Tito) sono dette “pastorali” perché sono
indirizzate ai responsabili di comunità, per la loro cura nel
governo, nell’insegnamento e nella
condotta della comunità a cui presiedono.
L’immagine che ne risulta è quella di una Chiesa ormai
stabile, che ha bisogno di una
organizzazione coerente e coraggiosa, capace di superare gli
ostacoli e le iniziali eresie,
serpeggianti alla fine del secolo I.
Timoteo è nato a Listra, da padre greco e madre giudea
(At16,1). Forse convertito da Paolo stesso
nella sua predicazione del primo viaggio missionario (attorno
al 45 d. C), è lungamente istruito
dalla nonna Loide e dalla madre Eunice, già cristiane. Al
tempo del secondo viaggio missionario
Paolo lo prende con sé, come collaboratore, e lo educa via
via, maturandolo nella fede. Diventato
adulto, assume importanti incarichi affidati da Paolo presso
le comunità dei macedoni e di Corinto..
L’apostolo Paolo, in questi versetti, ricorda la sua
conversione che Gesù ha compiuto
“fortificandolo” e affidandogli il compito del ministero:
“Così sono cambiato, dice Paolo, da
bestemmiatore ad annunciatore. Il Signore sovrabbondò con la
fede e la carità”.
Paolo dice che la verità di Gesù, venuto nel mondo a salvare,
è stata da lui stesso verificata. Sa così
di essere diventato un esempio, un testimone ed ha raggiunto,
senza merito, un tale ruolo da
diventare maestro delle genti nella fede e nella verità.
La riflessione, che Paolo fa sulla sua esperienza, lo porta
alla meraviglia ed allo stupore per la
misericordia che riscontra su di sé e quindi sulla umanità
che Gesù ha accolto e salvato. La
conclusione del testo è una “glorificazione” (dossologia) di
Dio Padre , segno di adorazione e di
ringraziamento, in contrapposizioni alle tante divinità e
divinizzazioni di imperatori e re.
Questo testo ci apre orizzonti gioiosi di benevolenza e di
grazia che il Signore ci ha offerto. Egli ci
ha fatti grandi. Non solo ci ha perdonati, ma ci ha
ingigantiti nelle sue scelte e nei suoi valori,
responsabili e costruttori di un mondo nuovo, inimmaginabile.
Paolo ci invita allora a scoprire il senso della nostra fede
che apre significati e consapevolezze,
rapporti nuovi e profondi, rivelazioni e garanzie che vengono
dal cielo e restano, in ciascuno, come
doni che nessuno ci può strappare.
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Cafarnao |
Marco 2, 13-17
In quel tempo. Il Signore Gesù uscì di nuovo lungo il
mare; tutta la folla veniva a lui ed egli
insegnava loro. Passando, vide Levi, il
figlio di Alfeo, seduto al banco delle
imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si
alzò e lo seguì. Mentre stava a tavola in casa di lui,
anche molti pubblicani e peccatori erano a
tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano
molti infatti quelli che lo seguivano. Allora gli scribi dei farisei,
vedendolo
mangiare con i peccatori e i pubblicani,
dicevano ai suoi discepoli: «Perché
mangia e beve insieme ai pubblicani e ai
peccatori?». Udito questo, Gesù disse
loro: «Non sono i sani che hanno bisogno
del medico, ma i malati; io non sono
venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Marco racconta dell’invito di Gesù a Levi perché faccia parte della sua
sequela.. Si sta
componendo il gruppo dei seguaci di Gesù e finora il Maestro, lungo il mare
di Galilea, aveva
invitato una coppia di fratelli a seguirlo, mentre erano intenti al loro
lavoro. (1,16-20) Così Andrea
e Pietro, Giacomo e Giovanni avevano lasciato il loro lavoro e si erano uniti
a Gesù. Ora Gesù,
ancora lungo il mare di Galilea, incontra Levi, figlio di Alfeo che sta
lavorando al banco dei
gabellieri. Lo invita e Levi si alza e lo segue. Ma la professione di Levi è
considerata disonesta
poiché gli esattori sono ritenuti avidi di danaro, interessati e sfruttatori,
rinnegati dal punto di vista
religioso e politico. E’ proibito ricevere un’elemosina da loro e cambiare il
danaro ai loro banchi,
poiché certamente il loro danaro proviene da un furto. Levi è un impiegato
subalterno che riscuote i
diritti di entrata o il pedaggio per merci e schiavi ai confini di una
provincia o di una città. E’ un
esattore giudeo e, in Galilea, è a servizio dell’autorità di Erode Antipa,
alleato dei romani e quindi
particolarmente odioso.
Gesù, a questo punto, ha al suo seguito ebrei onorati ed ebrei esclusi dalla
convivenza religiosa.
Egli vuole costituire un popolo nuovo, superando tutte le preclusioni. Marco
dice che, insieme con
Levi, si ritrovano a mangiare a casa di lui con persone del suo genere. E
Gesù, mentre mangia con
loro, non ha un atteggiamento di rifiuto, né esprime giudizio contro di loro
o opposizione. Gesù
mangia insieme, prende da vassoi comuni il cibo che viene offerto,
esprimendo, così, vincoli di
fraternità tra i commensali. Ci troviamo in un banchetto di amicizia, di
libertà e di comunione,
immagine del banchetto messianico. Nel suo testo Marco ricorda che Gesù sta
in mezzo tra i
peccatori e i discepoli per indicare un vincolo di comunione. Pubblicani e
peccatori sono gli
“esattori e i miscredenti” e questo fa inorridire scribi e farisei, le
persone fedeli alla legge e quindi
i giusti. I peccatori sono considerati esclusi dalla misericordia di Dio,
poiché si sono rivolti a
pagani per il loro mestiere, e sono diventati collaborazionisti con i nemici,
gli sfruttatori romani. In
tal modo sono praticamente impossibilitati a convertirsi.
Proprio questi giusti (le persone fedeli alla legge) vedono Gesù adagiato con
i discepoli e i
peccatori a tavola e si scandalizzano. Così l‘irritazione e lo sconcerto
prendono forma in una
domanda, formulata però ai discepoli, perché coloro che interrogano vogliono
far rilevare le
contraddizione e lesionare la fiducia nel Maestro. D’altra parte, sono sicuri
di trovarli sprovveduti,
in difficoltà e incertezze essi stessi, e sanno di porre una vera domanda
sulla violazione della legge
che non li avrebbe lasciati indifferenti.
E’ Gesù che interviene e dà due risposte. La prima dovrebbe essere tradotta
così: “Non sentono
bisogno del medico quelli che sono forti ma quelli che stanno male. Non sono
venuto ad invitare i
giusti ma i peccatori”.
“Quelli che sono forti” è ricordato sei volte in Isaia e rappresentano i capi
e gli oppressori del
popolo” (1,23-24; 3,1.2.25; 5,22; 22,3), “quelli che stanno male” fanno
riferimento al popolo,
abbandonato dai suoi dirigenti che continuano ad essere insensibili alla loro
sofferenza (Ez 34,4).
Così Gesù ribadisce ancora una volta di essere il nuovo buon Pastore.
E la parola adatta è “invitare (più che “chiamare”)”: invitare ricorda il
banchetto. In tal modo il
proverbio, probabilmente del medico e del malato, qui ricordato, rimanda
all’esperienza e alla
denuncia della oppressione. I veri oppressi sono nel popolo e tra questi ci
sono i “peccatori”,
esclusi dalla società religiosa e civile che sentono il bisogno di un
liberatore. Gli oppressori del
popolo si sentono a loro agio e non sanno che cosa farne di un liberatore. In
questo caso, però, la
religione copre una ingiustizia sociale e rischia di appoggiare
l’oppressione.
Gesù opera un intervento fondamentale: porta la sua parola che svela il vero
volto di Dio, libera dal
male passato, come è avvenuto con il paralitico (Mc2,5), infonde la vita e
l’autonomia (libera dalla
paralisi:2,12), allarga gli inviti per un popolo nuovo di fratelli.
Tutto il testo ci riporta alla misericordia e alla fatica di dover cambiare
mentalità in noi e attorno a
noi, perché la speranza diventi luminosa per tutti, anche per i rifiutati. |