
IV DOMENICA DI PASQUA
17.04.2016
Giovanni 15, 9-17
Riferimenti : Atti degli Apostoli 21, 8b-14 - Salmo 15 -
Filippesi 1, 8-14 |
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi
deliziosi: la mia eredità è stupenda. Benedico il Signore che mi
ha dato consiglio; anche di notte il mio animo mi istruisce. Io
pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra, non
potrò vacillare |
Atti degli Apostoli 21, 8b-14 In
quei giorni. Entrati nella casa di Filippo
l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo
presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili,
che avevano il dono della profezia. Eravamo qui
da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un
profeta di nome Àgabo. Egli venne da noi e,
presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le
mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo:
l’uomo al quale appartiene questa cintura, i
Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo
consegneranno nelle mani dei pagani». All’udire
queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo
Paolo di non salire a Gerusalemme. Allora Paolo
rispose: «Perché fate così, continuando a
piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto
non soltanto a essere legato, ma anche a morire
a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». E
poiché non si lasciava persuadére, smettemmo di
insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del
Signore!».
Paolo sta ritornando dal suo viaggio di missione e rivisita le
comunità che aveva fondato o che riconosceva
cristiane perché evangelizzate da altri (es. quelle della
Fenicia e la stessa Tiro fondate dagli ellenisti: At
11,19). Proprio a Tiro, dove si ferma con i discepoli sette
giorni, Paolo si sente dire dai cristiani del posto, “nello
Spirito”, di non salire a Gerusalemme. Paolo si ferma nella casa
di Filippo, uno dei sette eletti nella prima Comunità cristiana
per il sevizio alle mense, insieme con Stefano. Filippo ha
“quattro figlie nubili, con il dono della profezia”. Questa
notizia fa intravedere un grande lavorio di evangelizzazione
della comunità, da poco costituita, ricca di doni dello Spirito
di Dio, capace di illuminare e aperta alla partecipazione.
Probabilmente hanno un grande ruolo nel costituire richiami,
documentazione e approfondimento del pensiero di Gesù. Si parla
anche di Àgabo un profeta, che imita i gesti simbolici dei
profeti antichi per predire il futuro con segni particolari.
Egli ripete la profezia sull’arresto di Paolo a Gerusalemme,
utilizzando la cintura di Paolo come un legame di carcere. Paolo
dimostra una consapevolezza determinata a non lasciarsi sviare
dal suo cammino che ha per meta Gerusalemme: “Sono pronto ad
essere legato e a morire a Gerusalemme per il nome del Signore
Gesù”. Queste parole ci ricordano la stessa determinazione di
Gesù che cammina verso Gerusalemme e il Padre. Paolo vive la sua
vita e la sua vocazione di apostolo. Egli sente di evangelizzare
sia con le parole, raccontando, e sia con la vita affrontando i
disagi della persecuzione, come fece Gesù, per
aiutare la fede dei fratelli e sorelle. Ritorna così un richiamo
quotidiano: “Fare la volontà di Dio”, quasi ossessivo
e Gesù lo ripeteva spesso poiché i discepoli
non sapevano rendersi conto di molti perché e di molte scelte
che Gesù faceva. Qui, nel linguaggio di Paolo, c’è una
differenza. Gesù parla della volontà del
Padre, Paolo parla della volontà del Signore Gesù. Così Paolo
ritiene che la vera evangelizzazione si debba sviluppare nella
conoscenza della Parola di Gesù che ci apre il mondo di Dio e, a
somiglianza di Gesù, nella coerenza di vita, per essere esempio
e sostegno per fratelli e sorelle. Nel nostro tempo si sente una
grande sfiducia verso la coerenza delle proprie responsabilità
poiché sembra proprio scontato che con il danaro si possa
comperare ognuno e quindi si ritiene di avere il permesso di
poter fare qualunque cosa. Nel mondo del lavoro come nel mondo
politico il coraggio della correttezza, della chiarezza senza
pretendere di fare il maestro di nessuno ma la trasparenza delle
scelte, la partecipazione allargata alle valutazioni comuni ed
alle decisioni, il coraggio di ricercare in ogni cosa il motivo
delle decisioni aiutano a trovare forza e sostengono la coerenza
degli altri. Già, finalmente, la scelta di pagare i debiti,
contratti dallo Stato, è un atto di responsabilità e di
giustizia. Bisogna ricordare che non pagare i propri debiti è un
furto, e se fatto dal potere dello Stato, una rapina. In questo
caso i responsabili della realtà pubblica dovrebbero sentirsi,
ciascuno debitore, in occasione del proprio stipendio e si
dovrebbe spontaneamente prendere l’iniziativa del
ridimensionamento, delle proprie entrate poiché ci si deve
sentire responsabili delle proprie autorizzazioni.
Certo, insieme, c’è la responsabilità del pagare le tasse poiché
anche l’evasione fiscale è un furto delle risorse della Comunità
in cui si vive. Bisogna pretendere l’onestà del contribuente e,
nello stesso tempo, la comprensione verso i salari bassi
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Filippesi 1, 8-14 Fratelli, Dio
mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi
nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità
cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché
possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e
irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto
di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e
lode di Dio. Desidero che sappiate, fratelli, come le mie
vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo,
al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa
che io sono prigioniero per Cristo. In tal modo la maggior parte
dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor
più ardiscono annunciare senza timore la Parola.
Ci troviamo di fronte ad una particolare testimonianza,
riportata in questa lettera scritta,
probabilmente, nel periodo 61-63 d.C. durante la prigionia di
Paolo a Roma. Egli, per circostanze particolari, ha visitato a
suo tempo Filippi che è stata la prima città europea, da lui
evangelizzata, probabilmente, attorno agli anni 50, durante
il suo secondo viaggio missionario L’affetto di Paolo si
manifesta, prima di tutto, nel ricordo e nella preghiera
L’atteggiamento dell’apostolo è di riconoscenza e di
ringraziamento. Ciò che chiede Filippesi vivono, ma che hanno,
comunque, bisogno, sempre, di crescere in conoscenza e pieno
discernimento. Egli stesso manifesta il suo amore per la
comunità che conosce e sa di essere ricambiato. E se parla come
un grande maestro, si sente anche amico e fratello,
incoraggiando la comunità nella linea della saggezza. Nella
serie di raccomandazioni vengono inseriti anche elementi della
filosofia greca che sa proporre la figura del saggio. Paolo
suggerisce l’importanza della conoscenza, l’atteggiamento di
attenzione all’altro con sentimenti di discrezione, l’apprezzare
le cose migliori. Nella riflessione sulla saggezza, la filosofia
greca incoraggia ad una presa di responsabilità sulla realtà per
cogliere ciò che è opportuno fare o non fare,
il giudaismo fa riferimento alla Legge per conoscere la volontà
di Dio per una scelta preferenziale, i cristiani sviluppano il
progetto di essere trovati “puri e senza macchia”. Paolo sta
formulando una preghiera che conclude: “ I cristiani siano
ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di
Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”. Paolo, verificando il
cammino della fede nel suo contesto, pur se in carcere, si sente
gioioso perché ovunque c’è consapevolezza, “in tutto il palazzo
del pretorio e dovunque”, che la sua detenzione non abbia il
marchio della ingiustizia o del male, ma il significato di una
Parola nuova, pronunciata da Gesù, e capace di salvezza. Mentre
è in carcere e quindi ha un raggio di azione molto limitato, sa
che “la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati
dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la
Parola”. Paolo racconta con riconoscenza, poiché nel suo vissuto
vede una traccia segnata dalla Provvidenza per aprire i cuori
all’annuncio di Gesù. E, in tal modo, sa che sta
educando la Comunità di Filippi a saper vedere la
storia come occasione di sapienza e progetti nuovi. E’
certamente difficile interpretare la fatica quotidiana o
addirittura l’ingiustizia subita come un’occasione di
testimonianza. Eppure, nella luce del Signore, Paolo invita
ciascuno a saper intravedere la presenza del Signore e
trasformare ogni tempo come un tempo per la speranza di chi ci
sta vicino. Probabilmente questo è il miglior modo di sostenere
ed aiutare la comunità in cui viviamo, religiosa o laica che
sia.
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Giovanni 15, 9-17 In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai
discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel
mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come
io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho
detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho
amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i
propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi
chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi
ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto
conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho
costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga;
perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda.
Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Il vangelo di oggi è bellissimo: andrebbe centellinato parola per parola,
lasciandoci invadere da quella grande pace e consolazione del sentirsi chiamati
‘amici’, del sentirsi dentro la sollecitudine di Gesù di non abbandonarci soli,
disarmati eì sprovveduti a camminare per le strade della vita e del mondo.
Fa bene sentirsi dire e ripetere “rimanete nel mio amore”, che è poi
la sua raccomandazione, il “suo” comandamento, la “sua”
presenza. E si tratta di un amore concreto, appassionato, che fa palpitare, che
stringe la gola; non qualcosa di astratto, impalpabile,
proclamato più che vissuto. Rimanere nel suo amore vuol dire
partecipare a tutte le forme d’amore che la vita ci può offrire e provocare come
occasione non rimandabile di dono, di gratuità, di calore, di
coinvolgimento affettivo, di relazione. Amore come partecipazione di tutti se
stessi; perché l’amore, se è veramente tale, non è lesinabile o dosabile col
contagocce o confinabile in comportamenti prescritti, ma è totale, spalancato,
senza confini, fatto di sguardi, di sorrisi, di abbracci, di carezze, di cuore e
di mente, di coinvolgimento totale della vita, di spontaneità, di gratuità.
L’amore infatti, non ha limiti, è sempre eccedente, va oltre, è senza porte,
implica la piena, libera uscita da sé, il perdersi nell’altro,
per ritrovarsi più ricchi, più capaci di aprirsi, più disponibili a perdersi. Il
riferimento è l’amore di Gesù (“come io vi ho amato”), che è senza misura e
senza interruzioni, un amore che dà gioia, anzi “una gioia piena”. Fa pensare e
commuove questo richiamo alla gioia, come pienezza, come appagamento totale,
come “dolcezza senza fine” (salmo 15/16), come l’appagamento del desiderio più
essenziale del nostro cuore, come il dissetarsi totale di ogni nostra sete. Di
ogni nostro desiderio vitale. Come l’assicurazione che la speranza, il bene,
l’accoglienza di ogni pur piccola e sommersa manifestazione e richiesta di vita
e di vita bella, non sono né vanno perdute, ma fanno parte di quella grande
sinfonia che è l’amore e la vita di Dio. Non per nulla in Gesù
ha rivelato e manifestato palpabilmente che il Suo nome è
Amore, misericordia, fedeltà intramontabile. Ed è bello e consolabile sentirsi
chiamati a diffondere questo amore, a renderlo presente in questo nostro
scenario tragico del mondo e della nostra storia, ad essere fiduciosi che,
proprio perché Dio è amore, il male non prevarrà e ogni morte sarà riscattata e
sconfitta.
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