II domenica dopo la dedicazione
30 / 10/ 2016
Matteo 22, 1-14
Riferimenti : Isaia 25, 6-10a - Salmo 35 - Romani 4, 18-25
Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Signore, il tuo amore è nel cielo, la tua fedeltà fino alle nubi, la tua giustizia è come le più alte montagne, il tuo giudizio come l’abisso profondo: uomini e bestie tu salvi, Signore.

Isaia 25, 6-10a
In quei giorni. Isaia disse: / «Preparerà il Signore degli eserciti / per tutti i popoli, su questo monte, / un banchetto di grasse vivande, / un banchetto di vini eccellenti, / di cibi succulenti, di vini raffinati. / Egli strapperà su questo monte / il velo che copriva la faccia di tutti i popoli / e la coltre distesa su tutte le nazioni. / Eliminerà la morte per sempre. / Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, / l’ignominia del suo popolo / farà scomparire da tutta la terra, / poiché il Signore ha parlato. / E si dirà in quel giorno: “Ecco il nostro Dio; / in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. / Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; / rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, / poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”».
Nel testo di Isaia, scritto probabilmente dopo l'esilio, si profilano gli avvenimenti gioiosi della conclusione definitiva della storia: il raduno sul monte del Signore, il banchetto, l'instaurazione del Regno eterno. L'immagine di celebrare, con un pranzo, una vittoria viene, qui, sviluppata in un incontro universale fantastico: ci sarà un banchetto, organizzato da Dio stesso, sul monte santo di Gerusalemme, a cui sono invitati tutti gli uomini e le donne dell'umanità a festeggiare la fine del mondo vecchio e malvagio. Si favoleggia persino sul menu e i rabbini, ripensando alla potenza di Dio che ha ucciso un mostro marino, chiamato Leviatan, dato quindi come "carne per il popolo che abitava nel deserto" (salmo 74,14), hanno concluso che la vivanda principale dei giusti dovesse essere la carne di questo mitico pesce. Perciò, in Israele, ancora oggi, alla cena del venerdì sera, quando inizia sabato, si è soliti mangiare pesce per richiamare a tutti gli uomini pii il banchetto celeste che li attende.
- La salvezza è universale,
- si esprimerà nella comunione definitiva con Dio
- nell'immagine del banchetto è richiamata l'esperienza umana che diventa la parabola di Dio con il suo popolo. Gesù userà spesso questo momento di gioia poiché ognuno è nelle condizioni di condividere con gli altri, nell'intimità e nell'amicizia, la propria pienezza di festa e di allegria;
- il profeta, nella sua consapevolezza del tempo, non è ancora in grado di parlare di risurrezione, ma annuncia la scomparsa di una vita sconfitta, senza senso e senza ideali;
- il banchetto, vissuto nella gioia e nell'accoglienza, sarà allietato dalla musica, dai canti, dalle danze;
- finalmente, ma questo il profeta non lo sa ancora, poteva supporre, nella sua rivelazione definitiva, un incontro con quel Dio che già è stato incrociato nella storia, pur nella difficoltà e nell'oscurità della fede e della speranza. Ora Egli, finalmente, è il trionfatore visibile sulla morte e sulla sofferenza. Egli si mostrerà, a faccia a faccia, senza veli. Senza lacrime, finalmente, sarà il volto dei suoi fedeli. È il messaggio che ci viene da Gesù, annunciato continuamente da Paolo: "La morte è stata inghiottita nella vittoria" (1Cor 15,54) e ripresentato nella "visione dei cieli nuovi e terra nuova" dell'Apocalisse (cap 21).

Romani 4, 18-25
Fratelli, Abramo credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne «padre di molti popoli», come gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
E non soltanto per lui è stato scritto che «gli fu accreditato», ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione

Nella lettera ai Romani San Paolo, parlando della fede, presenta Abramo come un testimone fedele, coraggioso e fidato. Abramo, contro ogni speranza, ha continuato a sperare di poter avere un figlio da Sara, la moglie amata, poiché il Signore stesso glielo aveva promesso. Eppure aveva sotto gli occhi la crisi possibile di questa speranza, invecchiando lui e Sara, senza ombra o presagio di compimento. Abramo continua a fidarsi e si rinsalda. Convinto di Dio e della sua Parola, attende e questo lo fa crescere agli occhi di Dio come uomo giusto. Noi stessi che crediamo in Gesù diventiamo, come Abramo, coloro a cui "fu accreditato come giustizia". La fedeltà di Abramo gli procurerà, alla fine, Isacco, il figlio della promessa, ma anche una discendenza che da questo figlio nascerà. La nostra fede in Gesù non ha solo, come contenuto, la nascita di un figlio, ma la consapevolezza che Gesù è risuscitato, Lui "il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione". La coscienza del credente deve portare, davanti alle situazioni difficili della violenza e del male, l'impegno di credere in una circolazione di beni e di fedeltà che nasce da Dio e si distribuisce, giorno per giorno, nel cuore di ciascuno. Il credere in questa ricchezza in noi e negli altri ci deve portare ad osare nella speranza, ci deve far maturare per operare e quindi credere a che la speranza di Dio si compia ogni giorno nel cuore di ciascuno. Le tante paure esistenti, le tante diffidenze, le tante ritrosie della solidarietà possono venire abbattute dalla coscienza della presenza di Dio che è amore e quindi è più grande di qualunque paura, di qualunque diffidenza e di qualunque egoismo.

Matteo 22, 1-14
In quel tempo. Il Signore Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete,
chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
La parabola della lettura odierna è detta "della grande cena", perché ci presenta un sontuoso banchetto che un re ha imbandito per le nozze di suo figlio e a cui ha invitato molte persone ragguardevoli. Ma queste, nonostante due ripetuti e insistenti inviti, non vogliono andare, anzi alcuni se la prendono con gli stessi messaggeri insultandoli e arrivando persino ad ucciderli! Il re allora punisce molto pesantemente quegli assassini e manda di nuovo dei servi ad invitare chiunque, "buoni e cattivi", espressione semitica per dire: proprio tutti. Così la sala finalmente si riempie di commensali; ma il re vede uno privo dell'abito nuziale e, non avendone avute spiegazioni, ordina ai suoi servi di legarlo mani e piedi e gettarlo fuori nelle tenebre. Com'è noto, la parabola è un racconto fittizio, che non va interpretato in ogni suo particolare, ma di cui va colta la cosiddetta "punta", il centro verso cui tutto converge; nel testo in esame sono presenti due parabole (una più lunga e una molto breve), in cui il punto focale è rispettivamente: il contrasto tra chi rifiuta e chi accoglie l'invito del re; la punizione di chi si è presentato al banchetto in veste inadeguata. Vediamo ora di spiegare le due parabole. Il tema del banchetto e delle nozze è frequentissimo nell'Antico Testamento per indicare il regno di Dio: ne è un chiaro esempio il brano di Isaia 25, 6-10a, che costituisce la 1° lettura di questa liturgia; lo dice esplicitamente Gesù nell'introdurre i due racconti: "Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze..." (v.2). Il regno dei cieli è poi strettamente collegato alla dimensione della festa e della gioia: "rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza", dice ancora Isaia al v.9; e il banchetto nuziale su cui verte la parabola porta sempre con sé l'idea di un grande gioioso festeggiamento per quella bellissima realtà che è l'amore di due sposi. Allora fuor di metafora il discorso è chiaro: il re è Dio che vuole la partecipazione più ampia possibile, anzi la partecipazione di tutta l'umanità, alla festa e alla gioia del suo regno, alla comunione con Lui e con il Figlio Gesù. Ma molti, anzi tutti i primi invitati, rifiutano: chi sono? Nel contesto storico in cui viene narrata la parabola (gli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, dove avviene lo scontro con le autorità giudaiche che lo porterà alla morte), questi primi invitati sono i membri del popolo eletto, Israele, che ha rifiutato dapprima i profeti (i primi servi inviati dal re), giungendo addirittura ad ucciderne alcuni! e poi anche la predicazione e l'annuncio del Nazareno (adombrato nel secondo invio di messaggeri), rivolto a tutti senza distinzione: piccoli, poveri, peccatori, ignoranti, gente esclusa dalla comunità religiosa ebraica. Il rifiuto però non è senza conseguenze: nella parabola si parla di un re che manda a morte gli assassini e addirittura incendia la loro città (è qui evidente l'allusione alla terribile distruzione di Gerusalemme e del tempio ad opera dei Romani nel 70 d.Cr.). E' forse una punizione eccessiva? No, se pensiamo alla natura del grandissimo dono che Dio fa agli uomini chiamandoli al suo regno, cioè alla comunione con sé, e al senso della punizione nella Bibbia. Come scrive l'emerito card. Martini nel suo bel libro "Perché Gesù parlava in parabole?" (p.97), "Gesù vuole ribadire che c'è un assoluto primato di Dio rispetto alla storia, all'uomo, alle situazioni, ai beni.......Dio è il Bene supremo, e questo rende inevitabile il giudizio, dal momento che non è un bene facoltativo, ma assoluto e il suo contrario è il non bene dell'uomo. L'offerta di questo bene è talmente pressante (lo stesso essere di Dio che si rivela) da porre l'uomo che lo respinge nello stato di dannazione, nella miseria esistenziale più profonda.......La mia esistenza, con i suoi talenti, è una possibilità assolutamente seria che Dio mi offre per essere nel regno, nella pienezza della comunione con Lui e con gli altri; oppure diventerà rifiuto di questa pienezza." Quando, negli anni 80 d.Cr., il redattore del primo vangelo ("secondo Matteo"), si trovò di fronte a questo testo (tramandato dapprima oralmente e poi per iscritto), la comunità cristiana, che al contrario degli Ebrei aveva accolto l'invito di Gesù, aveva ormai alle spalle diversi decenni di storia. Essa si mostrava troppo fiduciosa in se stessa, illudendosi di possedere una sorta di "cambiale" per il regno; a causa di questa falsa sicurezza l'impegno di vita era diminuito e serpeggiava un certo lassismo. L'evangelista decise allora di attualizzare la parabola aggiungendo il secondo racconto relativo all'abito nuziale, che riflette l'uso del tempo di fornire una veste adeguata al banchetto ad invitati che arrivavano da lunghi viaggi, impolverati e in disordine; l'uomo trovato senza di essa evidentemente non l'ha voluta e si è presentato in modo non consono alla situazione.