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La nostra Via Crucis
La sagrada Familia

Compostela, la via della luce

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L’AUTORE
Poeta e romanziere

Giuseppe Conte è nato a Imperia nel 1945. Si divide tra una casa sul mare a Porto Maurizio e una al centro di Nizza, dove attualmente scrive. È tra i maggiori poeti italiani di oggi ( « Il ragazzo e l’oceano » ; « Le stagioni » ; « Ferite e rifioriture » ). Ha curato « La poesia del mondo « ( Guanda), novecento fittissime pagine per scoprire la lirica d’Occidente e d’Oriente. Ha pubblicato anche numerosi romanzi, da « Il terzo ufficiale » a « La casa delle onde » . Nel 2008 è uscito da Longanesi, « L’adultera » , una storia di pura invenzione, ma anche di felice inventiva e di accurata ricostruzione storica, su un personaggio citato nel Vangelo, di cui non si sa nulla e al quale il narratore restituisce la voce. ( F. P.)

Partii per Santiago de Compostela un’estate di qualche anno fa. Confesso che non pensai a un pellegrinaggio, e che non feci a piedi nessun tratto di strada se non quelli necessari per visitare la città. Ci arrivai comodamente, da Madrid, in aereo visto che su nessun treno si trovava più posto.
Sapevo poco della città, e in genere della Galizia. La decisione di raggiungerla fu di mia moglie, Mary. Era lei che mi aveva, qualche tempo prima, portato di peso a Gerusalemme, che io ero sempre stato riluttante a visitare.
Dunque sono diventato pellegrino nelle Città Santa per amore terreno. Ma credo che l’amore sia sempre una buona guida. Quell’anno Mary aveva una ragione in più per scegliere una meta che potesse aiutarla a trovare pace, dopo un lutto, la perdita del padre, che le aveva provocato sismi interiori fortissimi, somatizzati in modi anche impensabili. Siamo molto diversi, io e Mary. Io nomino Dio e gli dèi molto spesso, spero non invano. Ma forse in questo mio affannarmi alla ricerca del sacro c’è un senso di vuoto, di lacuna che devo colmare. Mary ha la disposizione opposta. Il divino non è mai sulla sua bocca. Forse perché l’ha più radicato, naturalmente, semplicemente, nel cuore. Non avrebbe accettato, quell’estate, un viaggio totalmente profano. E ne abbiamo fatti tanti, insieme.
Aveva bisogno di una meta che fosse anche meta dello spirito. Io ero al suo seguito. Ma presto capii che la scelta era giusta. All’arrivo, la Galizia non sembra più neppure Spagna. Si ha l’impressione di aver varcato una frontiera.
 

Niente degli stereotipi con cui pensiamo la penisola iberica.
Piuttosto, un verde limpido, foreste a distesa, mare tempestoso, un’aria intrisa di una nebbiolina nordica, che credi di essere passato direttamente alla Cornovaglia o alla Bretagna. Il gallego è una lingua musicale e ispida allo stesso tempo, ha una sua tradizione ricca, una sua fierezza marinara. Mi vengono in mente i versi di un antico trovatore :«Onde del mar di Vigo / avete visto il mio amico?». Qui onde, vento e pioggia sono all’ordine del giorno. Per prima cosa, provenendo dall’infernale caldo di Madrid, dobbiamo comperare due giubbotti per ripararci. Il nostro albergo è un po’ fuori della città. Un albergo senza pretese, con una piscina come sprofondata in mezzo al verde di edera e altri cespugli, sulla cui superficie ondeggiano tranquillamente foglie cadute, e che non invita certo al piacere di nuotare. Le sale sono arredate con un certa pesantezza severa.
C amminiamo e raggiungiamo il Paseo de Ferradura. Un punto di osservazione imperdibile. Una sorpresa per qualunque viaggiatore, anche il più rotto agli spettacoli improvvisi in cui il mondo squaderna la sua bellezza. Dal Paseo de Ferradura si domina tutta la città vecchia, e la Cattedrale appare sullo sfondo di tetti, cupole, campanili – si dice che Santiago de Compostela ne abbia 114 – e si presenta con una maestà ascensionale che è allo stesso tempo, misteriosamente, un distendersi in un orizzonte dorato di pietra. Il cielo viene toccato, trafitto. Ma è tutto lo spazio che viene occupato, risacralizzato. Senti che quella che hai davanti come su un immenso palcoscenico è una città sorta per raccontare, celebrare, tener viva la presenza della santità, della militanza al servizio di Dio. San Giacomo apostolo, l’evangelizzatore della penisola iberica, secondo una leggenda sorprendente giunse in Galizia su una barca dalla prua di pietra. Lì furono riportate le sue spoglie dopo il martirio, e lì furono ritrovate con il concorso di una pioggia di stelle che apparve all’eremita Pelayo. Dunque il cammino di Santiago è un cammino di luce, un cammino stellato. Dovrei vergognarmi, buon camminatore come sono, ad aver ridotto i miei passi a questi che separano il mio albergo dal Paseo de Ferradura e dalla piazza detta «do Obradoiro», dove è la Cattedrale. La facciata è davvero «un’opera d’oro». Il colore cambia durante le fasi della giornata, ma quello che domina è una sensazione di luce dorata interna alla pietra, di miele che si solidifica, di preziosità che incanta. Anche gli altri edifici che danno sulla piazza , l’Hospital de los Reyes Catolicos, oggi albergo di lusso, il palacio de Rajoy, sede del governo regionale, hanno il loro pregio architettonico, ma te li dimentichi subito, di fronte alla bellezza della Cattedrale. Non faremmo che stare lì a contemplarla, la testa in su, il cuore pieno di una reverenza indicibile. I portali sono una foresta di sculture che ti dà il capogiro, e nell’interno severo fa da calamita per gli occhi il brillare del «botafumeiro», l’immenso incensiere d’argento alto un metro e mezzo e pesante 72 chili.
I l pellegrinaggio, per noi, è questo sostare nella Cattedrale in compagnia dei nostri pensieri e delle nostre ansie. Avremo fatto poca strada, fisicamente. Ma sul piano spirituale è come se avessimo varcato un continente intero. Fuori fa freddo, il vento dell’Atlantico arriva a folate improvvise, ma le vie della città antica sono strette e riparate, accoglienti con i loro musicanti , i loro bar, i tanti negozi di souvenir; Mary non resiste alla tentazione di comperare una conchiglia e un cappello a tesa larga da pellegrino, tra i miei mugugni. Una sera, scopriamo un ristorante, San Clemente, dove ci servono il «pulpo a feira» , il polpo alla gallega bollito con patate affettate e rivestite di paprika, che entrerà da allora nelle nostre predilezioni in cucina.
Peccati veniali, questi di gola. In realtà, quello che ci è rimasto di Santiago de Compostela è il ricordo di una esperienza spirituale a contatto con la santità della terra. Nella Cattedrale, Mary ha contenuto i suoi pianti e ha acceso candele per l’anima di suo padre. Io, a mio modo, ho pregato. Di recente, a una cena una nostra amica ha sollevato ilarità dicendo che sarebbe andata a piedi sul cammino di Santiago de Compostela (ora è di moda) e che così magari finalmente avrebbe perso cinque chili. Noi siamo andati e tornati in aereo. E abbiamo perso, io soprattutto, un po’ di quella chiusura, di quella superbia o distrazione intellettuale che impediscono spesso di avvicinare con commozione le forme popolari del culto, la santità e i miracoli.
«Senti che quella che hai davanti come su un immenso palcoscenico è una città sorta per raccontare, celebrare, tener viva la presenza della santità»
 

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Redazione Web: don Sergio, Achille, Dario

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