PARROCCHIA
S. MARIA REGINA
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Anno 2008/2009
Numero 7 - maggio 2009

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E cominciarono a fare festa

 

“Nel Vangelo… non ci sono soltanto chiodi di ferro e sandali impolverati. Ci sono i vini prelibati di Cana che scomodano il Signore a compiere il primo miracolo per non lasciare insipido un festino di nozze, ci sono i vasi di alabastro della femmina di Betania e i suoi preziosi unguenti del cui profumo il Signore s’inebria anche se è uno scialo che offende gli istituti di beneficenza, ci sono le musiche e le danze in casa del Figliol Prodigo ritornato, l’anello e la veste bella e i fumi in cui si crogiola il vitello grassissimo, ci sono le reti di Pietro gonfie di pesci d’argento, ci sono gigli vestiti più splendidamente di Salomone. C’è insomma…tutta la festa dei sensi che incontrano le cose in una nuova e innocente gratitudine al Padrone delle cose» (L. Santucci, L’imperfetta letizia, Firenze 1954).

Mi piace molto questo brano di Luigi Santucci, uno dei più importanti scrittori cattolici del ‘900 e anche uno dei più originali. Ci aiuta a scoprire una chiave di lettura dei Vangeli credo non molto praticata dai cristiani, più abituati forse ad accostare il testo sacro secondo la prospettiva della sofferenza e del sacrificio o nell’ottica di una gioia solo promessa e propria della vita futura, magari nella rassegnata persuasione che “la felicità non è di questa terra”.

E invece è proprio la vita che gronda dai Vangeli ad allontanare ogni dubbio sul fatto che il cristiano ami legittimamente la felicità delle cose di questa terra e che il senso della festa sia un distintivo dei cristiani già in questo mondo, piuttosto che una nostalgia o solo una speranza per tempi a venire. Del resto, Gesù stesso fu accusato dai suoi contemporanei “benpensanti” di essere un gaudente: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Mt 11, 19). Ed è una festa non semplicemente interiore, dell’“anima”, ma una nuova vivacità dei sensi esteriori, della vista, dell’udito, del gusto, dell’olfatto, del tatto.

Proviamo a ripercorrere i testi citati da Santucci per cercare di capire di cosa sia fatto il senso cristiano della festa secondo il Vangelo.

Le nozze di Cana sono la straordinaria abbondanza del dono di Dio, espresso nel vino eccellente che Gesù ricava dall’acqua, per ridare vigore all’amore di due sposi e alla gioia dei loro amici (Gv 2,1-11): il senso cristiano della festa è il dono “esagerato” di sé per la gioia del prossimo.

L’unzione di Betania è il gesto “incosciente” di una donna che ha compreso quanto preziosa sia la vita minacciata del profeta di Nazaret e le sembra che anche i beni più inestimabili siano inadeguati per dirlo (Gv 12,1-8): il senso evangelico della festa è il senso della gratuità, che vince i calcoli meschini del dare e dell’avere.

La festa per il “figlio prodigo” tornato alla casa del padre è l’espressione del cuore di quest’ultimo che ha ritrovato vita alla vista di un figlio che sembrava perduto (Lc 15,11-32). Il senso cristiano della festa ha il sapore buono del perdono, della gioia per ciò che era come morto ed è ritornato alla vita: «così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15,10).

La pesca miracolosa di Pietro è lo stupore per la sorprendente efficacia di una parola, quella di Gesù, che ha il potere di rendere feconda una vita perché è capace di cambiare i cuori (Lc 5, 1-11): il senso cristiano della festa è la certezza di una parola creatrice di Dio che chiama la nostra esistenza a portare molto frutto. 

I gigli dei campi, infine, testimoniano l’amorevole cura del Padre per tutto ciò che è uscito dalla sua mano e invitano i figli del Regno a vivere nella pace confidando nella provvidente sollecitudine di Dio (Mt 6,25-34). Il senso evangelico della festa è perciò la pace dei figli di Dio che vince ogni affanno e affronta la fatica di ogni giorno cercando in ogni cosa la sua giustizia.  Perché la fede non è una cosa “della domenica” o “della festa” ma ha il sapore della polvere che si calpesta nel quotidiano, e del sale che lo rende sapido.

don Giuseppe

 

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