PARROCCHIA
S. MARIA REGINA
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ANNALENA TONELLI
UNA AMICA

- In Vaticano l'1 Dicembre 2001

- In Kenia il 4 Dicembre 2004

- Uccisa dai terroristi


I NOSTRI AMICI

Etty Hillesum

Christian Bobin

Annalena Tonelli

Teresa di Lisieux

Eric-Emmanuel Shmitt

KENYA - 04.12.2004
Con il popolo somalo, contro la tubercolosi, l'ignoranza e l'ingiustizia

Missionaria cristiana forlivese, visse per oltretrent'anni fra i Somali nel Nord-Est del Kenya e in Somalia. Morì in un attentato a Borama il 5 Ottobre 2003. Le circostanze della morte non sono mai state chiarite. Annalena non ha mai amato parlare di sé, ha vissuto in silenzio la radicalità evangelica per trentacinque anni in terra musulmana. Al pressante invito del Vaticano in occasione di un convegno sul volontariato (30 Novembre 2001) ha risposto con una bellissima e toccante testimonianza.
Annalena iniziò la sua attività missionaria come insegnante in Kenia. Nel 1976 cominciò ad accogliere i primi malati, intuendo che un nomade non poteva resistere per i 12-18 mesi di trattamento antitubercolare dentro i muri di un ospedale. Ideò perciò un centro di trattamento all’aria aperta, un ospedale-villaggio di capanne, simile a quello dei beduini quando sostano nelle oasi, con un quadrato di sabbia recintato da bacchetti come moschea, alcune tettoie per scuole di alfabetizzazione e di Corano.

Lo chiamò Villaggio nel nome di Allah clemente e misericordioso, riprendendo così la costante invocazione del fedele musulmano all’inizio e al termine di ogni azione. Quando le fu chiesto di guidare un progetto pilota dell'OMS per la cura della tubercolosi in mezzo ai nomadi, Annalena invitò i nomadi a fermarsi in un pezzo di deserto di fronte al Rehabilitation Centre for the Disabled, che era anche l’abitazione della sua piccola comunità. Fu chiamato Casa della gioia. Accoglievano piccoli e grandi disabili: poliomielitici, ciechi, sordomuti, deformi, epilettici, malati di mente. Li andavano cercare fin nel cuore della boscaglia, nelle misere e torride capanne dove erano tenuti segregati; li portavano al centro dove ricevevano amore, cure, cibo, riabilitazione, scuola.
Annalena era consapevole che la cultura non è solo liberazione dall’ignoranza o dalla solitudine, ma è anche l’unica possibilità di entrare in un’esistenza che non conosce confini di razze, di credo, di culture. Quando nel 1970 iniziò ad insegnare nella scuola superiore di Wajir, chiese subito per i suoi studenti musulmani il Corano in inglese, perché potessero capire il senso di quelle sure imparate a memoria, sin dai primi anni di vita, in una lingua araba a loro totalmente sconosciuta. Iniziando a curare i primi malati di tisi, creò nel contempo scuole di alfabetizzazione, di inglese e di religione. E così fece in tutti i altri posti dove la portarono le drammatiche vicende della guerra civile.

Il suo impegno fu decisivo anche per sventare un tentativo di genocidio. A Wajir-Kenya, venerdì 10 Febbraio 1984, era scattato un attacco militare per sterminare l’intera tribù dei Degodia (oltre 50.000 uomini). Nella notte camion militari prelevarono dalle capanne tutti gli uomini, compresi ragazzini e vecchi. I prigionieri furono portati a Wagalla, a poche miglia da Wajir, all’interno di un aeroporto militare in disuso, dove furono rinchiusi per quattro giorni e quattro notti, senza cibo né acqua. Non si seppe nulla dell’accaduto sino al lunedì, quando giunse al villaggio un uomo ferito che raccontò le atrocità dei militari. Avevano gettato benzina addosso ai prigionieri che rifiutavano di togliersi gli abiti e li avevano incendiati. Alcuni furono fatti stendere a terra e su di loro avevano marciato i militari con scarponi chiodati, colpendoli con i fucili e le pietre. La domenica furono fatti ammassare gli uni sugli altri: molti morirono asfissiati, altri tentarono di fuggire sotto i colpi di feroci sparatorie. Il martedì li fecero risalire sui camion per disperderli nella boscaglia, lontani dai pozzi e dalle piste. Incurante delle minacce della polizia, Annalena salì sulla Toyota su cui era dipinta una grande croce rossa, affittò due camion e si addentrò nel deserto, per soccorrere i superstiti e recuperare i morti. Un somalo fotografò montagne di cadaveri, le foto furono inviate ad Amnesty International e alle ambasciate occidentali. Sotto la  minaccia di una sospensione degli aiuti e dei rapporti internazionali, il governo degradò i capi dell’operazione, che si arrestò a circa un migliaio di morti.
Bisognava però eliminare una scomoda testimone: dopo un anno di interrogatori, indagini e varie imboscate, Annalena venne espulsa dal Kenya. Negli ultimi sette annidella sua vita visse a Borama, nel Nord-Ovest della Somalia, dove riattivò un ospedale e un ambulatorio per la cura e la prevenzione della tubercolosi. Aprì scuole di alfabetizzazione per bambini e adulti tisici, corsi di istruzione sanitaria per il personale paramedico e una scuola per bambini sordomuti e handicappati fisici.
L'OMS le forniva i medicinali essenziali. Con l’aiuto di alcuni amici e del
Comitato per la lotta contro la fame nel mondo di Forlì, provvedeva al mantenimento della struttura. Annalena credeva nel dialogo fra le religioni, e già nel 1993 mise in guardia dal fondamentalismo. Pur consapevole dei pericoli che questo comportava, lei non si arrendeva. Ma la sua era una scommessa sui tempi lunghi, su una presenza fedele e discreta, nel segno del come loro. Trent'anni trascorsi tra i somali le guadagnarono il rispetto e l’affetto dei musulmani. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito, capace di perdonare anche chi aveva tentato di ammazzarla, fece breccia nel cuore di tante persone che l’accostarono. Solo in questa luce si può capire come mai donne musulmane avessero accettato che una straniera (per di più cristiana) insegnasse loro come liberarsi da una pratica tanto antica quanto disumana, come quella delle mutilazioni genitali. A penetrare in profondità il segreto di questa donna umile fu un vecchio capo musulmano: “Noi musulmani abbiamo la fede”, le confidò una volta, “voi l'amore”.

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Redazione Web: don Sergio, Achille, Dario

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