2
buona”, quasi a voler affidare a qualcun altro
quel senso di limitatezza che abbiamo o quel sen-
so di incapacità che possiamo sentire.
Non mi pare pertinente la critica che talvol-
ta si sente nei confronti dei credenti: “Voi chiede-
te sempre l’aiuto di Dio perché non siete capaci
di fare da soli”. Se raccogliamo un pizzico di ve-
rità quando il richiamo alla fede copre la nostra
pigrizia, non possiamo però accettare una tale
critica.
C’è una parte umana che ci compete e che
deve essere fatta anche se, per ipotesi, Dio non
esistesse; c’è però un’altra parte di realtà che ci
sfugge e che non dominiamo, una zona della vita
che ci fa essere piccoli e fragili. E’ proprio ciò che
ci sfugge e che non possiamo governare, a mo-
strare la bellezza della vita umana. Non tutto è
sotto controllo, non tutto si può monitorare. Ci
sarà sempre un angolo di mistero che ci fa torna-
re piccoli, togliendoci il fiato come quando siamo
davanti ad un panorama di mare o di monti. Un
angolo di vita che non possiamo, grazie a dio,
manipolare o distruggere.
Niente a che vedere con quella mentalità
diffusa che riconosce solo la realtà materiale da
usare, da prendere o, peggio ancora, da compera-
re. Perché qualcuno crede che basti avere i soldi!
Certo il denaro ti permette di fare la spesa, ma ti
porta anche a pagare il corpo di una donna cre-
dendo di superare una solitudine. La grandezza
di noi uomini invece sta nel riconoscere che…
non siamo grandi!
Chiamiamola umiltà, senso del limite o con
altri termini appropriati, ma sempre per ricono-
scere quel mistero che ci avvolge tutti. E’ come se
si giungesse ad una soglia: è così per i rapporti
tra uomo e donna o tra amici; è così davanti alla
natura o davanti a ciò che l’uomo sa costruire; è
così nel cercare di parlare di fede e di un legame
con il divino. Si arriva sempre ad una linea e poi
“c’è dell’altro che ci sfugge”.
Invece, dal punto di vista di Dio, questa
soglia non c’è più, dal giorno in cui è nata una
storia nella casa di Nazaret e il divino ha voluto
stendere una croce di legno per unire il cielo e la
terra, ma… questo è un altro discorso.
Noi mortali siamo di un’altra pasta, appar-
teniamo ad un altro mondo rispetto a quello cele-
ste e pertanto rimaniamo al di qui di una soglia,
poco prima del mistero. Ed ecco allora che ha
senso dire: “E che Dio ce la mandi buona”.
D
ON
N
ORBERTO
Il 29 agosto scorso, con l'impresa di Ste-
fano Baldini nella maratona, si è chiusa l'edizio-
ne 2004 dei giochi olimpici. Considerando che
non siamo una grande nazione e abbiamo una
cultura sportiva piuttosto limitata, l'Italia ha
fatto una buona figura. Tuttavia c'è qualcosa
che mi fa pensare: credo che le medaglie siano
uguali per tutti, ma il lavoro che ci sta dietro,
durante gli allenamenti, sia diverso. C’è forse
una “durezza” differente tra le varie specialità.
Quello che ha fatto Cassina (oro alla sbarra) ha
richiesto probabilmente un lavoro fisico diverso
da, per esempio Pelliello (tiro al piattello). Sen-
za nulla negare al lavoro di concentrazione e di
preparazione di quest’ultimo, l’allenamento del-
le sbarre è maggiormente faticoso.
Un altro sport che capisco poco e che non
comprendo molto alle olimpiadi, è il cosiddetto
dressage, perchè, da quello che posso vedere,
per il tipo di balletto a cavallo la medaglia do-
vrebbe esse-
re data più
a l l ’ an ima l e
che al con-
d u t t o r e .
Comp r endo
anche poco
(non me ne
vogliano gli
appassionati di questo sport!) la disciplina del
ping pong e il badmington che mi sembrano
fuori posto rispetto ad altri sport che ritengo
più veri. Tutti quegli sport che nobilitano me-
glio le capacità degli esseri viventi ed esaltano
lo spirito olimpico che in ogni edizione possia-
mo respirare.
M
ATTEO
T.
GIVE UP
DALLA CARROZZINA DI MATTEO