Pagina 8 - Il Tassello

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All’inizio consideravo la mia malattia co-
me una realtà con la quale avrei potuto convi-
vere, ripetendomi continuamente: “Che cosa
vuoi che sia”. Ma ora essa ha preso il soprav-
vento e annienta la mia vita. Sono consapevole
che solo da me stessa può nascere la forza per
accettare questa dura realtà: dipendenza al cen-
to per cento da un’altra persona, dal momento
che non sei più in grado di lavarti, di mangiare,
di scrivere, di digitare, di leggere, di andare in
bagno. Quando sei in condizione di infermità
sei in balia degli altri, e ti rendi conto di quanto
la tua volontà possa essere annientata, capisci
di aver bisogno di tutto e
di tutti.
Invece vieni lasciato
solo con il tuo non- senso;
l’unico desiderio che ti
pervade è quello della non-
vita. L’indifferenza è il più
terribile dei crimini, se
perpetrato
contro
una persona comple-
tamente inerme. Ca-
pisco il continuo
spronarmi a vivere, ma
non riesco a concentrar-
mi sull’interesse che do-
vrebbe darmi anche soltanto
la meraviglia di un filo d’erba
che cresce. Partendo dalla considerazione che il
sole illumina tutti, sani e malati, spetta solo
alla nostra volontà farci o meno illuminare. È
necessario che la malattia non sia così invaden-
te da farti pensare che tutto quello che hai fatto
fino a questo momento sia inutile o sbagliato.
Noi, che siamo parte di questa società,
frenetica per antonomasia, quando ci dobbiamo
fermare per un qualsiasi motivo abbiamo da
portare un peso superiore alle nostre forze, per-
ché la società è fatta per chi sta bene, chi può
correre, non fermarsi mai.
Confrontandomi con altre persone amma-
late e più giovani non riesco a trovare quello
che loro chiamano “aiuto divino”. In ognuno di
noi c’è una piccola particella di Lui, che ci per-
mette di sapere chi siamo, ma nel momento in
cui siamo messi alla prova non comprendiamo
il senso di ciò che ci accade. L’unico motivo
che ci spinge a Lui è la richiesta di un aiuto,
perché da soli non possiamo farcela.
Dovremmo imparare a dividerci dal corpo
per risolvere i problemi del corpo; ma essere
solo spirito non è per tutti. Dunque non ci ri-
mane che riporre una grande forza in noi stessi,
per reagire e sperare nell’“aiuto divino” che ci
permetta di continuare, comprendendo sempre
più a fondo quella forza meravigliosa che è il
nostro spirito.
A
NGELA
D.
A scanso di equivoci,
credo sia bene precisare subi-
to che - mentre per
bontà
s’intende la disposizione na-
turale a fare del bene (il che è
indubbiamente una qualità
assai positiva) - per
buoni-
smo
s’intende invece un at-
teggiamento bonario e tolle-
rante che ripudia i toni aspri
dello scontro politico.
Ciò precisato, reputo
che tra bontà e giustizia esista
uno stretto rapporto, e che
essere buono non significhi
necessariamente essere tolle-
rante oltre ogni limite. In altre
parole, un padre che non ca-
stiga mai il figlio colpevole
,
non è né buono né giusto.
Pa-
dre
Candido
- priore di un
convento di cappuccini - ha
evidenziato che castigo e per-
dono non sono affatto incon-
ciliabili fra loro perché il giu-
sto castigo ha un carattere
correttivo. Il giudice che con-
danna chi ha commesso un
grave reato non è di certo un
giudice cattivo, ma conforme
alla giustizia. Insomma, si
può punire il colpevole e, nel-
lo stesso tem-
po, lo si può
perdonare.
Può darsi
che io mi sbagli,
però ho la netta im-
pressione che vi
sia la tendenza ad
esaltare eccessiva-
mente, non solo il perdono,
ma anche la tolleranza. Che
dire di quel padre che - invece
di punire il figlio colpevole
d’aver commesso un grave
reato - chiude un occhio (o
magari tutti e due)? Quel pa-
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