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L'EREMO DI SANT'ALBERTO DI BUTRIO
Tra le colline dell'Oltrepo pavese

La storia di un cavaliere che divenne eremita, e poi abate. Dando vita nell'alta Valle Staffora a un centro monastico di grande importanza, che ancora oggi affascina per la sua rude e spirituale bellezza.

Per raggiungere l’eremo di Sant’Alberto di Butrio si deve prendere la strada statale Penice-Brallo, a Sud di Voghera, fino a Ponte Nizza, quindi svoltare a sinistra seguendo le indicazioni. L’eremo offre ospitalità solo a scopo vocazionale, mentre è aperta a gruppi e singoli per ritiri spirituali di una giornata. Per informazioni, tel. 0383.54.21.79

 

L’Eremo Sant’Alberto, sorge fra primi rilievi dell’Appennino oltrepadano a 687 metri di altezza, isolato in una chiostra di monti, tra verdi pascoli, castagni, querce e abeti.- Dopo la morte di Sant’Alberto, l’eremo crebbe ancora in potenza e numero di monaci tanto da divenire un centro spirituale di una vastissima zona.- Ospitò illustri personaggi ecclesiastici e laici. Si crede vi abbiano soggiornato anche Federico Barbarossa e Dante Alighieri. Verso la metà del XV secolo, con l’avvento degli abati commendatari, l’Eremo incominciò il periodo di decadenza.- Nel 1543 gli ultimi monaci lasciarono l’Eremo trasferirsi altrove. Seguirono tre secoli di quasi abbandono totale, durante i quali il monastero e parte della torre furono distrutti.

Con l’avvento delle leggi napoleoniche, nel 1810, l’Eremo fu soppresso e requisito dal governo. - Dopo tre secoli (1600-1900), la cura dell’Eremo fu affidata a Don Orione nel 1900, anno in cui avvenne la riesumazione dei resti mortali di Sant’Alberto, deposti poi entro una statua di cera che si può vedere nella chiesa di Sant’Alberto. - Nel 1921 don Orione ripopolò l’Eremo collocandovi gli eremiti da lui stesso fondati nel 1899. Questi sono ancora presenti in questo Eremo e conducono una vita di francescana semplicità e preghiera. Tra di essi ebbe una certa rinomanza uno, chiamato Frate Ave Maria, che visse in questo luogo per circa quarant’anni dal 1923 al 1964 conducendo una vita straordinaria per santità, preghiera e penitenza.
Si svela adagio, l’eremo di Sant’Alberto di Butrio. Ramo dopo ramo, pietradopo pietra. Qui, nell’alta Valle Staffora, la ricca terra dell’Oltrepo si fa più aspra, densa di pini e castagni. Il verde dei filari lascia il posto ai bruni della montagna, l’oro e la porpora dei grappoli d’uva ai grigi delle rocce calcaree. E tutto tace quassù, mentre le nuvole vagano pigre e lente in un cielo che a sera si tinge sovente di rosso, tra le mormorate benedizioni dei piccoli frati. Era in cerca di pace e verità, il nobile Alberto. Stanco di guerre e contese, un giorno, improvvisamente, vestì di sacco e si esiliò nella selva più profonda, lontano dagli uomini, vicino a Dio. Pochi lustri erano trascorsi dall’anno Mille. Alberto viveva di nulla, dell’acqua di una fonte, delle radici e dei frutti del bosco. Pregava e meditava, meditava e pregava. Ma era questo ciò a cui il Padre lo chiamava? «Un segno, Signore, manda un segno affinché io comprenda la tua volontà...», implorava l’inquieto eremita. Un mattino Alberto si sentì chiamare. Era una voce forte, abituata al comando, eppure venata dal dolore e dall’angoscia. Il marchese di Malaspina lo cercava tra gli anfratti della montagna, la ricca veste strappata dai rovi, il volto stanco di un padre che non dorme da tempo. «Mio figlio non parla, non sente... Porta conforto alla mia casa, Alberto, te ne prego». L’eremita avrebbe voluto spiegargli che lui, di miracoli, non ne aveva mai fatti, che a malapena riusciva a badare a sé stesso, che a volte gli sembrava che Dio non ascoltasse neppure le sue di suppliche...

Ma non disse nulla. Seguì quell’uomo triste fino al suo castello, impose le mani sul piccolo sordomuto, e questi guarì. Alberto rimase impressionato da quel prodigio, forse più di quegli stessi genitori ormai ebbri di gioia. Pensò che poteva essere quello il segno divino tanto atteso: aprire le orecchie degli uomini perché potessero udire la Parola di Dio, sciogliere la loro lingua perché ne cantassero la gloria... Così, quando il marchese, raggiante di gratitudine, chiese all’eremita quale ricompensa poteva offrirgli, Alberto gli propose di aiutarlo a costruire una piccola chiesa e qualche cella, lassù, su quello sperone di roccia affacciato sull’Oltrepo. Nacque così l’abbazia di Butrio. O almeno così ci piace pensare, dato che in verità sulle origini dell’eremo ben pochi sono gli elementi certi e molto è stato volto in leggenda. Quel che i documenti riportano è che Alberto morì nel settembre del 1073, abate potente la cui autorità si estendeva sull’intera regione e il cui nome era noto e rispettato anche a Roma. Venne canonizzato in brevissimo tempo, e la sua fama di santità andò radicandosi nella tradizione. I secoli seguenti furono quelli più intensi per il cenobio della Valle Staffora. La primitiva cappella intitolata a Santa Maria venne attorniata da altri due edifici di culto, dedicati al fondatore Alberto e all’abate Antonio; le semplici celle organizzate in un vero e proprio monastero, dotato di chiostro, aule per la vita comune, stanze per i pellegrini e alte mura per la difesa dai non rari, purtroppo, malintenzionati. Il tutto, a ben vedere, seguendo più la naturale conformazione del luogo e i bisogni del momento che un preciso progetto architettonico, la qual cosa conferisce ancor oggi al complesso una singolare quanto affascinante armonia. L’abate di Sant’Alberto di Butrio, tra il XII e il XIV secolo, poteva fregiarsi anche del laico titolo di conte, privilegio pontificio non da poco. I monaci seguivano quassù la regola benedettina, secondo la riforma di Cluny o la revisione bobbiense, mantenendo tuttavia sempre viva l’antica vocazione eremitica. Perfino negli anni in cui fu ridotta a commenda, nel Quattrocento, l’abbazia mantenne il suo ruolo di guida nella storia religiosa del territorio e delle comunità circostanti. Il declino, lento quanto inesorabile, giunse invece negli anni della Controriforma, quando anche i bianchi Olivetani, dopo una breve esperienza, dovettero lasciare Sant’Alberto, privo ormai di vocazioni, svuotato della sua secolare autorità. Tempi tristi, di abbandono e rovina. L’abbazia tornò a risuonare delle salmodie degli eremiti solo nei primi anni del nostro secolo, quando il beato don Luigi Orione chiese che il luogo venisse affidato al ramo contemplativo della sua famiglia religiosa, facendolo rinascere a nuova vita. E così è ancor oggi. All’eremo di Butrio arte e fede si sono incontrate nel modo più semplice, genuino. Anonime e devote mani hanno innalzato le sue pietre, affrescato le sue pareti, decorato i suoi altari. Come nella più recente delle tre chiese che compongono il complesso pavese, quella di Sant’Antonio. Edificata nel Trecento, questa si presenta come una grande sala quadrata il cui pilastro centrale regge quattro volte a crociera, a loro volta appoggiate a semicolonne dai capitelli riccamente scolpiti con motivi ad intreccio e animali. La chiesa è interamente ricoperta di affreschi, che raccontano le storie di santa Caterina e di san Sebastiano, intervallate e sottolineate da una folla di profeti, di santi e di martiri. Donne dagli sguardi materni e sognanti, uomini dalle grandi mani da contadino e dalle barbe incolte: schiere celesti che non nascondono la loro umanità, quasi a ricordare ai pellegrini di ieri e oggi che anche i santi han vissuto, patito e gioito su questa terra. Uomini tra gli uomini, donne tra le donne. Realizzati nel 1484, come si legge in più di un cartiglio, questi affreschi sorprendono per la vena freschissima, espressa nella predilezione per i colori chiari e i toni squillanti, nel tratteggio vivace delle figure, nella semplicità ed efficacia degli schemi narrativi. Ma chi fu a realizzarli non sappiamo. Più di un pittore, questo è certo. Forse sono opera della bottega di Manfredino e Francischino Baxilio, attivi nel tortonese, ma apprezzati per la loro arte in tutto il ducato di Milano: l’impostazione prerinascimentale delle scene, il tono gustosamente provinciale dei personaggi, l’attenzione “profana” nel riprodurre vesti e ornamenti, tutto ciò farebbe propendere proprio per una simile ipotesi. Da qui attraverso un’arcata si può accedere alla chiesa di Santa Maria, la più antica, quella che lo stesso Alberto avrebbe costruito attorno alla metà dell’XI secolo, e a quella di Sant’Alberto, eretta pochi decenni più tardi, forse alla morte del santo fondatore. La prima è uno splendido esempio di architettura preromanica, realizzata in conci irregolari di diversa grandezza. La seconda doveva essere un tempo ricca di dipinti come l’adiacente cappella di Sant’Antonio, di qualità ancora superiore per raffinatezza e cura dei dettagli, come le parti rimaste (si veda per esempio la bella immagine di una Madonna in trono fra santi) testimoniano. Dell’antico chiostrino, purtroppo, un solo lato rimane, formato da una serie di dieci archi a doppia ghiera retti da colonnine in pietra con capitelli scolpite, di stile assai prossimo a quelli dell’abbazia di Piona nell’alto Lario. Proprio qui, secondo la tradizione, in una tomba scavata nella viva roccia, riposano le spoglie di Edoardo II, re d’Inghilterra che fuggì l’amara patria per trascorre a Sant’Alberto di Butrio gli ultimi anni della sua vita, in preghiera e penitenza.


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Redazione Web: don Sergio, Achille, Dario

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